Se gli israeliani prendono il basket così sul serio, mettendoci davanti forse solo la religione, e spesso compenetrando le due cose, lo devono a Tal Brody, l’americano di origini ebraiche che nel 1966 rinunciò alla NBA per varcare l’oceano e spendere vita e carriera nella terra promessa, al Maccabi Tel Aviv. L’etica professionale, la leadership, l’intensità in allenamento e in partita, resero Tal Brody ispiratore di un intero popolo che iniziò a considerare la pallacanestro uno stile di vita e uno specchio dell’identità nazionale. Tanto che il Maccabi divenne una potenza europea e la nazionale israeliana collezionò in quel periodo un argento continentale e altri onorevoli piazzamenti.
Oltre cinquant’anni dopo, in Israele, l’attesa di un messia cestistico che rappresenti ed esalti la nazione potrebbe concretizzarsi in un giocatore, seppur ancora teenager, che ha tutte le potenzialità per diventare il miglior israeliano di sempre: al Draft 2020 il nome di Deni Avdija è pronosticato tra i primi dieci a uscire dalla bocca di Adam Silver. Se i rapporti politici tra Stati Uniti e Israele sono sempre stati stretti, nel basket molti americani hanno giocato nella lega israeliana ma solo tre elementi della terra di David sono riusciti a strappare contratti in NBA: Omri Casspi, oggi tornato al Maccabi, scelta numero 23 del 2009 e un’onesta carriera tra i professionisti; Gal Mekel, visto a Reggio Emilia nella stagione 2019-20, una manciata di apparizioni; TJ Leaf, degli Indiana Pacers, scelta numero 18 del 2017, israeliano di nascita ma genitori ed educazione made in USA. Avdija, invece, è il diamante allo stato grezzo destinato a glorie ben più immortali di chi lo ha preceduto.
Se il Maccabi è definito The State Club, la squadra della nazione, il rappresentante dell’orgoglio ebraico nel mondo sportivo, con la “marea gialla” dei suoi irrefrenabili tifosi erede ideale di un popolo intrinsecamente votato all’esodo e pronta a invadere ogni palazzo dove la squadra è di scena, e in questo discorso il blasone di 53 titoli e le 44 coppe nazionali c’entra relativamente, Deni Avdija è l’immagine ideale di un’organizzazione polisportiva di ispirazione borghese e liberale, tendenzialmente conservatrice ma senza estremismi, che inevitabilmente, tra sport e politica, deve fare i conti con il concetto di more than a game.
Deni è un ragazzo di buona famiglia, dalla faccia pulita e con la testa sulle spalle, nato a Tel Aviv e cresciuto nella ricca città satellite di Herzliya. È figlio di un kosovaro di minoranza gorani, Zufer Avdjia, ex nazionale jugoslavo (bronzo ai mondiali 1982) e capitano della Stella Rossa, trapiantato in Israele per giocare a basket. Zufer qui conosce la seconda moglie Sharon Artzi, ex runner cresciuta in un kibbutz (sorta di comune agricola ebraica ispirata a principi egalitari). Verso i dodici anni Deni decide che il calcio, suo primo amore, non fa per lui e che avrebbe seguito le orme del padre. Inizia nel Bnei Herzliya e a tredici entra già nel vivaio del Maccabi. Suo padre non lo ha mai allenato davvero, si dice perché lo stesso Deni non abbia voluto pressioni in famiglia.
Deni Avdija, a 19 anni da compiere il 3 gennaio 2020, è già alla terza stagione al Maccabi senior, ha debuttato a sedici anni e il suo nome è scribacchiato sui taccuini degli scout NBA più di quanto non sia considerato in EuroLega (al momento gioca 11 minuti e segna 1,8 punti a partita, dopo 11 giornate). Cifre a prima vista limitate, ma è normale in un contesto di altissimo livello, fortemente orientato al risultato, soprattutto quest’anno in cui il Maccabi vuole tornare in alto con grandi acquisti (Omri Casspi, Tarik Black, Quincy Acy). Coach Sfairopoulos, però, conta su di lui: il greco è un allenatore che ama lavorare con i giovani, in stretta connessione con il florido settore giovanile maccabeo che di recente ha già sfornato elementi quali Zoosman, attuale pezzo di rotazione della squadra. Sfairopoulos, con il prezioso aiuto dell’assistente Veljko Perovic, sta centellinando l’utilizzo di Avdija, che non disdegna di far partire in quintetto in più occasioni, ripagato da lampi come la schiacciata in coast-to-coast nel canestro del Barcellona.
Ben diversi, in termini di impatto, i discorsi a livello giovanile, dove Avdija ha dominato e vinto tre titoli nazionali, così come con la nazionale israeliana Under 20, per due volte consecutive campione d’Europa e in grado di sfoggiare un interessante generazione di talenti di cui Avdija è la punta di diamante. In particolare, il top è stato raggiunto nel torneo continentale 2019, in cui la rappresentativa con la stella di David ha trionfato in casa con Deni MVP. Dopo una doppia doppia da 26 punti e 11 rimbalzi in semifinale contro la Francia, nell’atto conclusivo, nonostante la notte precedente non avesse praticamente dormito per l’adrenalina, segna 23 punti alla Spagna, con 5 rimbalzi e 7 assist. In nazionale maggiore ha debuttato a diciotto anni, il 21 febbraio 2019, nella vittoria per 81-77 sulla Germania.
A diciotto anni, quindi, Deni Avdija ha già saggiato abbastanza basket professionistico e ha già una certa esperienza in fatto di sacrifici a cui si deve sottoporre un atleta in grado di attirare verso di sé gli occhi di tutto il suo paese, senza dimenticare però che si tratta di un ragazzo poco più che adolescente con la sua voglia di divertirsi e le sue passioni come andare in spiaggia o giocare alla PlayStation. Nonostante le origini di suo padre, Deni è israeliano al cento per cento, non parla serbo, ha una ragazza che sta nell’esercito e legge e si informa approfonditamente sulla storia di Israele e dei suoi conflitti. Il paese crede in lui, tanto da aver ottenuto un permesso speciale, occasionalmente concesso ad atleti particolarmente promettenti, per essere esentato dal servizio militare obbligatorio.
I radar NBA, che spesso valutano un giocatore in base al talento e al potenziale e non tanto a quanto sia pronto nel momento corrente, hanno puntato Deni Avdija con decisione sempre maggiore fin dalle sue partecipazioni ai camp di Basketball Withour Borders di Belgrado e di Charlotte. Le sue caratteristiche fisiche e tecniche sono tra le più ricercate: 2,06 di statura per 95 kg di peso (che dovranno necessariamente aumentare), l’israeliano è ascrivibile a quel che oggi è definito point forward, cioè un’ala con le capacità di una guardia, in grado quindi di portar palla e fare playmaking.
La sua versatilità gli consente di ricoprire tutti i ruoli di esterno, combinando tecnica e fisico con un elevato IQ grazie al quale sa scegliere se tirare o passare, attaccare il ferro o tirare da tre, giocare pick and roll in entrambi i ruoli o dedicarsi alla sua specialità: i tagli in area, sia da servire con assist illuminanti, sia da effettuare lui stesso per ricevere. Altro suo grande punto di forza è la transizione: Avdija è una minaccia in campo aperto con corsa, tagli e assist. Deve lavorare molto sui cambi di ritmo: si rifugia spesso nel palleggio per ovviare a una certa mancanza di esplosività e inoltre sarà chiamato a sviluppare un maggior atletismo per usare il corpo per crearsi spazio tra se stesso e il difensore. Contro le difese NBA è ancora tutto da verificare, anche se allenarsi tutti i giorni contro Acy e compagni è senza dubbio un buon viatico. La forza di questo prospetto resta l’etica lavorativa: non di rado si ferma a lavorare dopo le partite, per migliorare dove ha bisogno, come ad esempio il tiro libero, la velocità di rilascio e l’uso della mano sinistra.
Nel 1978 il Maccabi Tel Aviv, in un’amichevole di settembre contro gli allora Washington Bullets, fu la prima squadra di area FIBA ad affrontarne una NBA. E fu anche la prima a vincere: alla Yad Eliyahu Arena, oggi Menora Mivtachim Arena, i campioni NBA in carica persero sorprendentemente per un punto, 98-97. Si trattò di un secondo “We are on the map!“, dopo quello, passato alla storia, che l’anno prima Tal Brody aveva gridato al termine della decisiva vittoria contro il CSKA in semifinale di Coppa dei Campioni 1977. Un successo dal valore anche extra-sportivo, in epoca di guerra fredda, conseguito dal Maccabi contro la squadra dell’armata sovietica. Il Maccabi, negli anni successivi, continuò con una certa frequenza ad affrontare team NBA durante la preseason, arrivando nel 2005 a un nuovo record: prima squadra FIBA a battere una squadra NBA sul suolo americano. Canadese, per la precisione: i Toronto Raptors, messi ko dai gialli 105-103. Quella tra Stati Uniti e Israele è dunque una storia di continui ponti e relazioni, anche a livello sportivo, e il prossimo approdo e il possibile successo di Deni Avdija in NBA, un atleta espressione del Maccabi Tel Aviv e israeliano modello, non farà altro che rinverdire e rafforzare questo profondo rapporto.