Drazen Petrovic, l’uomo che cambiò il basket

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Quando Drazen Petrovic si affacciò sul panorama del basket europeo, le cose cambiarono in fretta.

C’è un prima Drazen e un dopo Drazen nel basket europeo. Prima di Drazen, i playmaker erano giocatori che impostavano il gioco, tiravano poco, cercavano di armare le braccia delle guardie e delle ali, far arrivare la palla vicino al canestro. Erano dei geometri di buona tecnica che all’occasione potevano anche segnare.

Drazen cambiò questa prospettiva. In un basket profondamente cambiato dal tiro da tre, Drazen si prese il pallone e lo gestì, facendo contemporaneamente da strumentista e compositore, da giocatore che imposta e giocatore che finalizza. Proprio come Mozart, Drazen riassunse in sé i caratteri del giocatore globale in grado di creare il basket in una dimensione completamente nuova.

Questo era Drazen. E la fortuna fu che nacque in Jugoslavia, allora il laboratorio più avanzato del basket mondiale, e trovò allenatori in grado di accogliere la novità che il suo gioco portava.

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Zoran “Moka” Slavnic, innanzi tutto, che a Sebenico lo mise in campo nella massima serie giovanissimo. Slavnic era stato uno dei grandi talenti degli anni ’70, detto Moka per le quantità di caffè che beveva. Giocatore talentuosissimo e feroce competitor in campo, Slavnic riconobbe in Petrovic le qualità del grande giocatore slavo e lo aiutò a scatenare il suo istinto per metterlo al servizio della squadra.

Mirko Novosel, a Zagabria, che lo inserisce in un sistema con giocatori più forti del Sebenico, come suo fratello Aza, i lunghi Knego e Arapovic, Cutura e i due Nakic, che hanno il compito di tirare compulsivamente da tre squilibrando gli equilibri di un basket europeo che faticava ad adeguarsi al nuovo verbo.

Zeliko Pavlicevic completa la sua formazione al Cibona che vince ancora una Coppa dei Campioni e poi si deve rassegnare alla Korac, perché perde il campionato e la sciagurata formula di allora non permette di difendere il titolo.

Dopo il Cibona, Drazen prende possesso del Real, in cui Lolo Sainz, play del Real anni ’60 e allenatore fino all’89, gli lascia le chiavi della squadra e lo guarda infilare record su record, come i 42 punti in gara-4 dei playoff scudetto o gli 8 assist di gara-2.

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Ma la partita che definisce Drazen e un periodo intero è la finale di Coppa contro Caserta. In una partita memorabile, Drazen segna 62 punti, Oscar 44 e Gentile 32, mettendo in piedi un duello di triple che lascia intravedere un basket di spazi smisurati in cui i grandi tiratori possono lanciare la palla da ogni distanza. I tempi regolamentari si chiudono con una tripla di Oscar da 7 metri in faccia a Cargol e un fallo di Biriukov non fischiato su Gentile. Ma la partita è uno dei momenti più belli del basket europeo anni ‘80.

In Nazionale Petrovic infila l’argento olimpico dell’88 e l’oro a Eurobasket ’89 e ai Mondiali del ’90. La Jugoslavia di quegli anni avrebbe fatto comodamente l’NBA con un record vincente. Esprimeva il gioco del futuro con cinque giocatori in campo di grandissimo livello tecnico, fisicità e grandi mani. Dio solo sa cosa avrebbero potuto fare nel ’92, ancora uniti.

Ma questi sono rimpianti da cestisti. La dissoluzione della Jugoslavia portò stragi e dolore e Petrovic si separò per sempre dai suoi compagni serbi, bosniaci, montenegrini e macedoni con cui aveva dominato il basket. Sono cose che la storia mette in moto e non si possono più fermare.

Nell’89 intanto si era trasferito in NBA, a Portland, dove la sua sconcertante modernità non venne capita. Incasellato come tiratore, Drazen non poteva adeguarsi a un gioco americano restato sostanzialmente indietro, in cui la suddivisione di ruoli, estremamente tradizionale, non riusciva ad accogliere la novità del suo gioco. Forse solo Curry oggi ci mostra cosa sarebbe stato Drazen al suo meglio in NBA, con la palla in mano e tutto l’arsenale dei suoi colpi a disposizione.

Dovette aspettare i Nets e Chuck Daly, con un grande play come Kenny Anderson, per riuscire a esprimere il suo basket che mise in crisi persino un Jordan che non era abituato a marcare giocatori con la sua incredibile tecnica e una voglia di vincere, pari se non superiore al GOAT.

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Nel ‘92, alle Olimpiadi, trascinò la Croazia all’argento perdendo in finale contro il Dream Team.

Per chi ha visto Drazen giocare, il suo basket suonava all’inizio come una bestemmia. Cresciuti con il dogma del play che imposta, non si riusciva a capire come un giocatore che avocava a sé la costruzione e la finalizzazione del gioco potesse essere così vincente. Ma non era un caso se Drazen “nasceva” in Jugoslavia. Slavnic e Delibasic prima di lui avevano sdoganato con il loro talento una versione del Petrovic che il tiro da tre attrezzò di un’arma prima non vista. E non era un caso se in Italia Tanjevic allevava prima Gentile e poi Bodiroga in ruoli di giocatori “globali”.

Il tempo ha dimostrato che Drazen era un giocatore avanti rispetto alla sua epoca. Il prodotto di un pensiero cestistico slegato dai limiti imposti dalla tradizione, di un laboratorio delle idee che metteva il talento davanti ai ruoli prefissati. Drazen costruì il suo ruolo, si diede i suoi limiti, e dimostrò che il nuovo verbo del basket avrebbe cambiato tutto, e nulla sarebbe più stato come prima.