Un colpo di spillo gialloviola, il suono tenue di una bolla che scoppia che fa da preludio al ritorno al fragore quotidiano, laddove la bulimia di luci e rumori allontana sempre di più dall’analisi di sé stessi. Così cala il sipario su questi unici, per molti anticlimatici, NBA Playoffs.
Indubbiamente per molti fruitori l’assenza dell’atmosfera del palazzetto gremito ha costituito un disagio, una percezione a cui abituarsi come in alcuni spettacoli teatrali dove chi li dirige adotta la scelta estetica di lasciare il dietro le quinte alla portata dell’occhio dello spettatore, e questo disagio ha fatto sì che molti ritenessero il risultato sportivo conseguente a questa scelta (nel caso non estetica, ma obbligata) non meritevole di omologazione. Ma se la bolla, letterale e metaforica, ci avesse regalato qualcosa che all’esterno di essa non avremmo potuto ammirare?
Prendiamo i Miami Heat, squadra che aveva già impressionato all’interno della regular season ma che non era tra le accreditate nella corsa al titolo della Eastern Conference, piuttosto sembrava un intrigante progetto con un’illuminata guida tecnica che però richiedeva più tempo per compiere il proprio percorso, con un go-to-guy come Jimmy Butler accompagnato da un certo scetticismo, come in un po’ tutta la sua carriera, sul fatto che avesse o meno l’allure del leader, perché un contesto di stampo democratico, come da indissolubile paradosso storico, per funzionare deve avere le gerarchie ben definite.
Diversi ricercatori in ambito neurologico e psicologico concordano nella spiegazione di un caso particolare del quotidiano che è capitato almeno una volta un po’ a tutti: perché quando il guidatore deve eseguire una manovra delicata in auto, abbassa il volume della radio? La risposta sta nella distrazione. Il suono della radio toglie risorse a ciò su cui stiamo cercando di concentrarci. Lo spogliatoio Heat, visto come entità inscindibile, tramite l’esercizio del silenzio derivante dalla solitudine ha potuto mettere a fuoco i contorni della propria natura, utilizzandolo come slancio creativo e rinnovamento nel confronto col mondo esterno, bruciando così le tappe utilizzando questa sorta di stanza dello spirito e del tempo per raggiungere un livello più alto di gioco di squadra.
Gli Heat della bolla sono di tutti. Di questi tempi, in un’epoca in cui larga parte della popolazione mondiale ha dovuto isolarsi da una minaccia, chi più è educato all’esercizio del silenzio ha potuto compiere uno scatto in avanti personale, professionale, spirituale. La quarantena ha fornito una piattaforma potentissima a chi non rifugge il silenzio, non lo riempie con dispositivi creati per catturare l’attenzione. Abbassando il volume della arene, anche la concretizzazione delle idee sprigionate dalla nuova consapevolezza di Miami ha trovato una qualità che forse non sarebbe stata raggiungibile in tempi brevi e “normali” da una squadra giovane e in cerca di identità, in un contesto dove è stata possibile una trasposizione visibile e libera da ingerenze esterne di due elementi opposti ma ugualmente importanti, al pari di silenzio e suono in musica e pieno e vuoto in architettura, come studio ed esecuzione nel basket.
“Fools” said I, “You do not know
Silence like a cancer grows
Hear my words that I might teach you
Take my arms that I might reach you”
Cantavano Simon & Garfunkel all’interno della loro eterna “Sound of Silence”, e i Miami Heat hanno approfittato del silenzio creativo per squarciare quello dell’incomunicabilità in cui versava la lega nella figura delle franchigie che credono l’unica via per avere una squadra da titolo per due anni sia quella di stagnare per stagioni e stagioni nei bassifondi della classifica per accumulare scelte alte al Draft, con l’effetto di far disamorare una piazza e di svilire il prodotto in generale (tecnico e televisivo).
In questi anni la dirigenza di South Beach, in totale affiatamento con il coaching staff, pur dovendo subire colpi come la perdita di LeBron o il ritiro per infortunio di Chris Bosh, ha sempre costruito un roster di livello dignitoso in grado di lottare ogni anno per un posto tra le prime 8 di Conference e, soprattutto, con le idee ben chiare a livello di filosofie di gioco e di selezione di giocatori che le incorporassero, pur mantenendo un’ammirevole flessibilità tattica (vedi la loro declinazione di zona difensiva nella recente postseason).
In questo modo hanno potuto attrarre una stella come Butler, che in un contesto in cui si è sentito padrone delle proprie azioni ha capito di dover fare quello step caratteriale richiesto a un primo violino quando gli ingranaggi non girano al meglio, e probabilmente ne attireranno ancora altre nel prossimo futuro, possibilmente senza smantellare il nucleo attuale. In una singola run hanno eclissato la stella più fulgida della lega e hanno superato un altro sistema basato sui loro stessi principi, ma forse ancora più pubblicizzato, come quello di Stevens e dei suoi Celtics, tutto ciò giocando un basket che ha portato ogni singolo elemento a scoprire di saper fare cose che egli stesso non credeva di saper fare.
Ethos, Logos e Pathos di questi Heat hanno persuaso tutti, in primis loro stessi, della bontà dei loro argomenti, in un palcoscenico senza precedenti grazie a una squadra costruita in modo complementare come poche nell’epoca recente. Alla vigilia delle Finals, percezione confermata da un amaro senno di poi, i Miami Heat avevano la sensazione che avrebbero potuto farcela ma, come in un romanzo di formazione, hanno scoperto che per quanto sia attenta una pianificazione, eventi come infortuni e/o scontri con una forza semplicemente superiore sfuggono al controllo. Perché puoi ideare il percorso culturale perfetto, ma a Napoli avrai sempre più persone al belvedere sulla meraviglia naturale del golfo che alla mostra di Caravaggio al museo di Capodimonte, e via discorrendo.
Coach Spoelstra si è lasciato andare a un pianto intriso di rammarico nell’ultima conferenza stampa, non tanto e non solo per l’esito delle Finals, quanto per la consapevolezza che condizioni di lavoro così prossime alla purezza tecnica difficilmente gli ricapiteranno in carriera, e non è nemmeno detto che Miami sia destinata narrativamente a culminare in un trionfo, come dimostrano le difficoltà di Boston (per dirne una) dopo il fantastico cammino a fari spenti interrotto solo da quel sublime guastafeste di LeBron James, perché alcune finestre di forma, di energia e di momenti d’essere si chiudono per poi mai più riaprirsi. I suoi Miami Heat hanno però tracciato un solco per il ceto medio della NBA, sperando che non venga ignorato da coloro che “bow and pray to the neon God they made”. Un Dio del neon con scritte luminose come “THE PROCESS” che poco o nulla hanno a che vedere con chi, in silenzio, costruisce il progresso.