Nba Focus: Flop Draft 2013, le tre delusioni fuori dalla Top-ten

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Diamo un’occhiata ai tre Rookies che, al giro di boa della loro prima stagione NBA, hanno deluso maggiormente. Tralasciamo la top10 – di cui tutti ormai parlano, da Bennett a Len, da Zeller a Caldwell-Pope – e guardiamo i flop dalla scelta n°11 (ok, facciamo dalla 12, và..) in poi. I tre giocatori scelti per voi sono tutte e tre guardie. Uno è un play, gli altri due hanno il fisico per potersi adattare anche da ala piccola. Di chi stiamo parlando? Shabazz Muhammad dei T-Wolves, Dennis Schröder degli Hawks e Sergey Karasev dei Cavaliers. www.minnpost.com Il primo, quando approdò al college a UCLA – dopo un Nike Hoop Summit da 35 punti – sembrava dovesse essere la prima scelta assoluta dello scorso “povero” draft. Un anno mediocre a Los Angeles sia per colpa sua (brutte percentuali dal campo e poco dominio fisico – rispetto a ciò che ci si aspettava – sui pari-ruolo avversari), sia per colpa dei suoi compagni forse non all’altezza (UCLA, sesta teste di serie a Sud, è uscita al primo turno del tabellone NCAA contro Minnesota, 11esima, con ben venti punti di passivo, 63-83), l’hanno fatto scivolare fino alla 12° chiamata. È del Minnesota l’ultima squadra che affronta al college ed è del Minnesota anche la squadra che lo fa approdare tra i professionisti. Per un ragazzo al primo anno, avere un allenatore come Adelman comporta vantaggi e svantaggi: da una parte, è un allenatore molto esperto che conosce molto bene la NBA, lavorandoci ormai da trent’anni; dall’altra, però, tende ad avere i suoi “fedelissimi” ed ad usarli troppo. Quindi, le riserve devono conquistarsi la sua fiducia nei pochi minuti che vengono loro concessi. Giocare poco può essere frustrante, soprattutto per un rookie – come potrebbe essere Muhammad – che sa che può sfruttare il suo fisico per giocarsi vari miss-match con le guardie avversarie, sia in penetrazione, sia in situazioni di post basso. Strano, invece, che il coach non lo impieghi anche come cambio dell’ala piccola, visto che, prima che ritornasse Budinger dopo un lungo stop, il vice-Brewer era addirittura Hummel, undrafted aggregato alla squadra dopo aver disputato un buon training camp. Il giocatore uscito da UCLA ha chiuso la sua prima – e probabilmente non ultima – avventura in D-League a quasi “20+10” di media ma, richiamato da Adelman, ha solamente guardato i suoi compagni di squadra da bordo campo. Le altre due delusioni dell’ultimo draft non chiamate tra le prime dieci sono due europei: Dennis Schröder e Sergey Karasev.

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Il primo è capitato in una squadra competitiva (anche perché si trova a Est), ma poteva benissimo giocare da terzo play, davanti a Mack. Coach Budenholzer preferisce giocare con Korver (108 and counting.. gare consecutive con almeno una tripla a bersaglio) da guardia con Carroll da 3, mentre fa partire Louis Williams come sesto uomo. Se l’allenatore avesse optato per Williams da guardia e KK da 3, forse il tedesco avrebbe trovato più spazio in regia. Però Atlanta sta disputando una buonissima stagione e buona parte del merito va proprio all’ex assistente di Popovich. Schröder paga inevitabilmente il suo fisico smilzo che subisce tutti i suoi pari ruolo. È vero che il livello del campionato tedesco è abbastanza basso (nonostante una crescita esponenziale negli ultimi anni), però la scelta n°17 degli Hawks ha dimostrato di saper  giocare a questo splendido gioco, portando i suoi New Yorker Phantoms ai playoff grazie alla sua velocità e alla sua buona, seppur migliorabile, visione di gioco. Il salto al di là dell’Oceano non è facile per nessuno, però il nostro ha tutte le potenzialità per essere un buon innesto dalla panchina nella NBA, nonostante il suo palcoscenico ideale rimanga l’Europa.
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Il russo Karasev, voluto fortemente dai Cavaliers e scelto alla n°19, sembrava dovesse essere il tiratore perfetto della second unit per alternarsi con l’energia di Gee e la “sapiente” regia di Jack. Allenato per due anni da suo padre al Triumph Lyubertsy, non proprio l’élite del basket russo, la fretta di volare negli States l’ha condizionato prima agli Europei, dove doveva essere il leader di una Russia alquanto inguardabile, e invece sembrava un giocatore qualunque, senza la capacità – richiesta ai giocatori che hanno intenzione di trasferirsi in NBA – di svoltare le partite, nel bene o nel male, ma comunque assumendosi maggiori responsabilità. Poi, è stato condizionato anche a Cleveland: in quegli spezzoni di gara che ha giocato è sempre sembrato un giocatore insicuro e poco convinto. È ancora giovane, essendo classe ’93, però questa mania di andare subito in NBA senza prima costruirsi un gioco, e un nome, in Europa, a lungo andare questi anni di gioco “persi” – perché un conto è allenarsi con i migliori, un altro discorso è giocare le partite – ricadono sulla sua stessa carriera. Per questi tre giocatori la carriera oltreoceano è appena iniziata e hanno tutto il tempo per migliorare il loro gioco e il loro fisico. Quando vedo questi giovani giocatori che sono tutti da “sgrezzare”, mi chiedo come mai tentino sempre la carta NBA così presto e non rimangano, invece, un altro anno, o più, al college, oppure in Europa, meglio se in squadre di Eurolega? Non penso sia una questione solamente di soldi, ma anche di paura. Paura del futuro. Paura di non essere all’altezza di grandi squadre europee. Paura di peggiorare le prestazioni di quell’anno. Inoltre, in tutto ciò, ne risente il loro gioco e la loro crescita, perché crescere al college non è come crescere in D-League. Bastano due nomi: da una parte, Damian Lillard; dall’altra, Austin Rivers.