Notte di stelle a Springfield, Massachussets, nell’avveniristico Naismith Basketball Hall of Fame: nella notte italiana sono stati inseriti nel grande novero dei migliori di sempre dell’NBA Dirk Nowitzki, Tony Parker, Dwyane Wade, Pau Gasol e Gregg Popovich. Tra gli altri nomi premiati nella notte, spiccano gli allenatori Gene Bess, David Hixon e Gene Keady, mentre per il Woman’s Commitee abbiamo l’ex cestista Becky Hammon, coach Gary Blair e la nazionale femminile olimpica del 1976.
Come di consueto, i protagonisti hanno preso parola sul palco per esporre un pensiero sulla propria carriera e sui passi che li hanno portati alla notte di ieri. Le emozioni in campo, gli ex compagni, gli amici di una vita, i grandi che hanno ispirato le loro carriere: nel fiume di parole scorso ieri sera, di seguito riportiamo quelle più importanti.
Pau Gasol
Sicuramente il passaggio più emozionante di tutta la cerimonia lo ha fatto vivere Pau Gasol nel suo discorso. Dopo aver narrato il suo percorso, durante il quale la barriera linguistica ha rappresentato un enorme ostacolo, e aver ringraziato i giocatori non americani che hanno aperto la strada, in primis Toni Kukoč, Gasol ha voluto ricordare il compagno con cui ha vinto tutto e che per lui è diventato un vero e proprio fratello: “La persona che ha alzato più di tutti gli altri il mio livello e che mi ha insegnato cosa servisse per vincere ai massimi livelli l’ho conosciuto ai Lakers. Kobe. Lui mi ha insegnato quanto bisogna lavorare duro e qual è la mentalità da avere. Quando mi unii alla squadra per la prima volta era tardi e arrivai in hotel a mezzanotte. Mi scrisse che voleva venire a salutarmi e gli risposi che era tardi e che magari era meglio il giorno dopo dato che avremmo giocato la notte seguente. Lui insistette e venne, voleva essere sicuro che ricevessi il suo messaggio di benvenuto. Mi disse “Ora andiamo a vincere un titolo insieme, buonanotte”. Non sarei qui senza di te, tu e Gigi siete qui oggi con noi. Mi mancate e vi voglio bene.“
Pau Gasol ha avuto anche un fratello in NBA, Marc Gasol, e non si è trattenuto da dedicargli un aneddoto: “Era un ragazzo speciale. Io ero il fratello maggiore e quindi cercavo di farmi valere quando giocavamo in giardino, ma alla fine è cresciuto e abbiamo vinto per il nostro Paese. Mi ricordi di un momento speciale nella palla a 2 dell’All Star Game 2015. Grazie, Marc.“
Dwyane Wade
Dwyane Wade, leggenda dei Miami Heat con cui ha vinto 3 titoli, è partito dal ricordo del playground con il padre all’età di 5 anni (il padre è anche salito sul palco durante la cerimonia, ndr), per poi passare a Marquette e infine l’NBA. Un pensiero Wade lo ha voluto dedicare a tutti gli infortuni che hanno forgiato il suo carattere: “Sono qui perché la mia fede supera i miei dubbi. L’importante non è quanto forte si cada, ma come ci si rialza. Le sconfitte devono diventare carburante, le limitazioni imposte da altri ispirazioni. Ecco perché mi ricordo spesso che i nostri eroi non sono sempre perfetti, ma hanno quella sicurezza che li rende intoccabili. Veri. Questo si dice di Allen Iverson.“
Allen Iverson, infatti, ha accompagnato Flash sul palco del Naismith Basketball Hall of Fame. Da lui Wade ha preso il numero di maglia, ma non solo: “In te ho visto me. Non avevi paura quando giocavi, chiunque avessi di fronte, tanto non ti avrebbero mai fermato. Lo so bene perché l’ho provato anche io.“
Flash continua a elogiare l’ex giocatore dei Philadelphia 76ers, vera icona dell’anticonformismo nello slang, nel modo di vestirsi ma soprattutto nel modo di giocare: “Hai ispirato migliaia là fuori ad abbracciare la tua unicità. Hai dimostrato che il successo può essere ottenuto anche nelle avversità perché le fatiche rendono più importanti i tuoi risultati. Ha dimostrato a una generazione intera, compresa la mia, che la redenzione e la crescita sono possibili. Ci hai fatto credere che venire dal nulla non è una limitazione, ma una motivazione. Te lo dico con il cuore: sei la mia cultura e ti amiamo e ringraziamo, Allen Iverson.“
Infine, Wade ha voluto giustamente ricordare la storia dei Miami Heat e i compagni che lo hanno accompagnato in questo incredibile viaggio: “Shaq mi ha insegnato ad essere il perfetto Robin per Batman prima di farmi diventare Batman stesso. Bosh ha rappresentato quell’amico che ammiri. Per quanto riguarda LeBron, invece, ho potuto vedere con in 4 anni non si sia mai risparmiato dalla grandezza, allenandosi ogni giorno. Con Udonis Haslem, invece, ho imparato a essere un leader non egoista, insieme, ed è diventato un fratello maggiore per me, uno con cui proteggersi dentro e fuori dal campo.“
Tony Parker
Tony Parker, leggenda del basket francese ed europeo, ha guidato i San Antonio Spurs, insieme a Tim Duncan, Manu Ginobili e Gregg Popovich, alla storia. Su 5 anelli in totale per la franchigia texana, 4 portano il nome di Parker, che ha iscritto il proprio nome anche nella storia della nazionale francese con cui ha conquistato 1 oro, 1 argento e 2 bronzi agli Europei di categoria.
Parker, oggi proprietario dell’ASVEL Villeurbanne, si ritiene estremamente connesso con la classe 2023 e lo sottolinea anche con un filo di ironia: “Pau Gasol è stato mio compagno e rivale, soprattutto con la maglia della nazionale. Con Dirk abbiamo avuto una forte rivalità in Texas, ma siamo grandi amici e ho assistito al ritiro del suo numero. Dwyane Wade, affrontato due volte alle Finals NBA, è stato il giocatore preferito di mio fratello, che urlava il suo nome in casa ogni volta e io non sapevo come farlo smettere. Backy Hammon, una sorella maggiore per me. E coach Pop: mi ha detto che è la prima volta nella storia che un giocatore e un allenatore entrano insieme nella NBA Hall of Fame. Non riesco a liberarmi di lui.“
Il francese, accompagnato proprio dagli ex compagni Duncan e Ginobili, non poteva esimersi dal ricordare i tempi agli Spurs: “Tim Duncan è la miglior ala grande di sempre. Aveva un superpotere: sapeva comunicare solo con gli occhi, non chiedeva mai la palla a voce, bastava uno sguardo e io gliela passavo. A primo impatto, per un giovane 19enne, vedere Duncan che ti guarda ti fa paura. Molti si lamentavano per avere palla, come Bruce Bowen, ma Timmy no, ti fissava e basta, per questo è speciale.”
Riguardo Ginobili, invece, Parker calca su un aspetto particolarmente ironico: “Manu era unico. Non aveva prezzo vedere le facce di Pop quando lui giocava da point guard e faceva passaggi. In particolare, ce n’erano due: quelli leggendari, e quelli nelle gradinate, che ovviamente erano i preferiti di Pop. Ricordo come i media argentini si lamentassero che non la passassi mai a Manu, ma gli schemi li disegnava il coach e i disegni erano tutti per Timmy, da point guard cosa avrei dovuto fare?“
L’ultimo pensiero va sempre a Duncan e a un altro simpatico aneddoto: “Durante il mio primo anno, Timmy non mi parlava mai perché non gli piacevano i francesi e soprattutto il mio accento. Tra i tanti metodi che coach Pop aveva per motivarmi, che evito di riportare perché ci sono i miei figli piccoli, mi ricordo quando mi disse, a 19 anni, che sarei partito titolare. Ero stupito e gli risposi: “Davvero? Lo hai detto a Timmy?” perché credevo che ancora non gli piacessero i francesi ed ero spaventato. Pop è stato come un secondo padre per me, grazie, ti voglio bene.“
Dirk Nowitzki
La leggenda tedesca, campione NBA nel 2011 con i Dallas Mavericks, ha scelto proprio due ex compagni ai Mavs per arrivare sul palco, Steve Nash e Jason Kidd. A loro va subito il primo pensiero: “Steve, da quando mi feci quel taglio di capelli ad oggi ne abbiamo fatta di strada. Giocare con te, mio modello e incoraggiatore, è stato tutto, tanto da diventare amico per la vita. JKidd, sei il mio uomo. Nonostante l’età quando venni a giocare per noi, di te mi ricordo lo spirito guerriero e che marcavi tutti a tutto campo. Eri un giocatore a tutto tondo e quel titolo vinto insieme ci ha legato a vita.“
Dopo aver chiuso con una battuta il ricordo dei due ex compagni (“Avrei voluto giocare con loro nel loro prime”), Nowitzki dedica un momento a Mark Cuban, che tra i legami avuti nel corso della sua carriera è stato uno dei più forti: “La nostra amicizia iniziò quando, una volta acquistati i Mavericks, venni da me per un 1 contro 1 perché dicevi di saper giocare. Ti ho schiacciato in testa e quello fu l’inizio del nostro rapporto. Perciò, grazie di tutto.” Infine, dopo aver rimarcato il concetto di lealtà, tanto caro a lui che è sempre rimasto a Dallas, ha voluto ringraziare il suo allenatore personale, Holger Geschwindner.
Gregg Popovich
Un inaspettatamente emozionato coach Popovich ha descritto il momento come “inimmaginabile“, soprattutto per uno come lui che arriva dal basso e ha dovuto farne tanta, di gavetta. Dopo aver ringraziato diverse personalità che lo hanno forgiato come allenatore, tra cui coach K, Pop ha iniziato a regalare una gag dopo l’altra con i suoi accompagnatori: “Se sono qui lo devo a questi ragazzi. Mi hanno assegnato il lavoro di creare un ambiente vincente. So riconoscere i miei meriti, però. Ero lì, li ho guardati, ho assistito a loro che vincevano. E questo non può essermi tolto.“
Dopo essere sceso dal palco per finta, creando suspense durante la sua performance, ha voluto “attaccare” personalmente Duncan Robinson, Manu Ginobili, Tim Duncan e Tony Parker, riconoscendo a ognuno il merito nei suoi successi: “Lo confesso, ho imprecato più di una volta, ma sono così e ho sempre voluto rimanere me stesso. Perché? Tappatevi le orecchie, bambini: i giocatori sanno quando dici stronzate e se non sei genuino, lo notano subito. Ma con Robinson ho fatto un accordo, mi disse: “Ok Pop, fin quando non pronuncerai il nome di Dio invano, io ci sarò per te.“
“Con Manu non è stato facile. Tony prima diceva che ci ha messo un paio di anni ad adattarsi, mentre Manu un giorno viene da me e dice “Pop, sono Manu, e io faccio così”. Lì imparai a starmi zitto e a lasciarlo giocare come voleva. Forse è la cosa migliore che puoi fare da coach.“
“A Timmy chiedevo di ascoltare ogni tanto ciò che avevo da dirli, o perlomeno di annuire. Volevo un po’ di soddisfazione, sentire di essere io l’allenatore di questa squadra.“
“A Tony chiesi di essere perfetto. Al giorno d’oggi, per come alleno, mi avrebbero messo in manette. Lui mi dice che ora sono soft, ma ti devi adattare“
Becky Hammon
La leggenda della WNBA, Becky Hammon, ha voluto ringraziare proprio coach Popovich durante il suo discorso: “Pop, so che non stavi cercando di essere coraggioso quando mi hai assunto, ma hai fatto qualcosa che mai nessuno nella storia dello sport professionistico aveva fatto.” Infatti Hammon, dopo essere stata un punto fermo nei San Antonio Silver Stars, squadra affiliata agli Spurs nella WNBA, è diventata la seconda donna di sempre a diventare assistente allenatrice in una squadra NBA. E lei divenne pioniere delle donne nello sport professionistico, vincendo il titolo nel 2014 con gli Spurs insieme ai giocatori poc’anzi elencati e all’uomo che non si stava accorgendo che, con quel gesto, aveva appena riscritto la storia.