The 10th Symphony

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Pallacanestro e musica sono andati molto d’accordo da sempre. Sarà per l’armonia generale del Gioco, sarà perché nel Basket, come nella musica, si alternano tempi e movimenti, creando un’onda subalterna tra eccessiva esaltazione e decadimento. Solitamente una “Sinfonia Cestistica” è il risultato del lavoro di una squadra, giocatori, allenatori, tutti inclusi, i quali danno vita ad un meccanismo armonico e perfetto. Ma in questo caso la sinfonia è frutto di un solo giocatore, anzi, è la carriera di un solo giocatore. E se Beethoven si è fermato a 9 Sinfonie, questa è senz’altro la decima.

Primo movimento: Andante – “I’m not gonna be babysitting” Shaquille O’Neal

 

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With the 13th pick in 1996 NBA Draft, the Charlotte Hornets select Kobe Bryant from Lower Merion High School in Pennsylvania.”

Mentre David Stern diceva questo, Hornets e Lakers si erano già accordate, e quella tredicesima scelta avrebbe vestito gialloviola nella seguente stagione, mentre in North Carolina volava Vlade Divac, considerato che i losangelini erano in procinto di firmare Shaquille O’Neal e a Charlotte serviva disperatamente un centro vista la partenza di Alonzo Mourning in direzione Florida.

Kobe Bean Bryant, il nome completo del giovane draftato, è figlio di un ex professionista in NBA e in Europa, tale Joe Bryant. Nato a Philadelphia nel 1978 mentre il padre era in forza ai Sixers, ha vissuto parte dell’infanzia in Italia, più precisamente tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, dove il padre ha giocato durante i suoi 7 anni di professionismo nel Bel Paese. A 13 anni ritorna negli USA e comincia a frequentare la Lower Merion. Ecco, la Lower Merion. Si tratta di un ottimo liceo, famoso più che altro per la sua squadra di football, dalla quale, già ai tempi del Bryant studente, erano usciti diversi giocatori NFL. Per quanto riguarda invece cestisti NBA, l’unico da annoverare è Jim Brogan, ma se questo nome non vi dice nulla non preoccupatevi.

Kobe, che ha preso buona parte del talento del padre, porta la squadra a sfiorare più volte il titolo nazionale. È un giocatore straordinariamente atletico, dotato di un buon tiro dalla media e dalla lunga distanza, forse troppo innamorato della palla, ma su questo aspetto ci soffermeremo più avanti.

Nel suo anno da senior il figlio di Joe decide di vincere. Decide è il termine giusto, perché in quella stagione si caricherà la squadra sulle spalle trascinandola ad un clamoroso 31-3, di cui 30 vittorie consecutive, riportando il titolo nazionale alla Merion dopo 53 anni.

Kobe Bryant si sente il re del mondo. Kobe Bryant non ha bisogno del College. Kobe Bryant è sicuro di sé. Kobe Bryant si rende eleggibile per il Draft NBA 1996.

E rieccoci a Los Angeles, con un 18enne spaccone ed ambizioso in una squadra dove il leader è appena arrivato. Ma non è lui.

L’anno da rookie è più o meno uguale per tutti. Se non ti trovi in una squadra in ricostruzione e disastrata o hai davanti qualche giocatore da qualche anno nella Lega, giochi poco. Ed in posizione di guardia ai Lakers c’erano un certo Byron Scott (nel ruolo cestistico più adatto a lui, il giocatore) ed un certo Eddie Jones.

Ma Kobe cresce e non potrebbe essere altrimenti considerato l’ambiente che lo circonda, meritandosi anche il rispetto del allora coach dei Lakers, Del Harris. Il suo gioco spettacolare incanta tutti. Un ragazzino di 18 anni se la stava cavando in una lega di assoluti mostri. Stava prendendo sempre più spazio nei Los Angeles Lakers, la franchigia che aveva dato vita alla leggenda di Magic Johnson, che aveva vinto 11 titoli, la seconda più vincente della Lega. Un sogno.

Ma anche i sogni non sono perfetti. Bryant è coperto di critiche da tutti per il suo egoismo in campo, proprio come succedeva ai tempi del liceo. Ma se alla Lower Merion a lamentarsi erano qualche adolescente brufoloso e suo padre, in NBA essere bollato come egoista ti porta contro compagni e stampa, a discapito della fiducia.

Ed è proprio per questo motivo che al termine della sua stagione da rookie che Coach Harris lo fa partecipare alla Summer League per farlo lavorare sul suo lavoro di squadra e soprattutto sugli scarichi. Anche perché risalivano a non più di due mesi prima 4 airball nei minuti finali delle Semifinali di Conference contro gli Utah Jazz. 4 tiri forzati che hanno condannato i Lakers ad un sonoro 4-1 e a un’amara eliminazione dalla postseason.

Ma ad uno come Kobe certe cose si perdonano, soprattutto se nella stagione successiva raddoppia i punti realizzati partendo solo una volta titolare in 79 partite giocate. Numeri che gli valgono la chiamata alla partite delle stelle di quell’anno. Il più giovane di sempre ad essere chiamato. Addetti ai lavori e non stanno cominciando a capire cos’hanno davanti. E non è normale.

Ritorniamo però un attimo all’Estate ’96. Chi era arrivato insieme al nativo di Phila nella Città degli Angeli? Ah Shaquille O’Neal, colui che avrebbe dovuto riportare il titolo in gialloviola dopo 8 anni di astinenza.

Ecco, come può mai reagire una personalità simile a quella di Shaq quando qualcuno ti sta rubando la scena?

Gelosia. Forse fu solo della stupida gelosia a creare quello strano rapporto di odio e perfezione cestistica che ha caratterizzato gli anni losangelini di Diesel.

 

Secondo movimento: Vivace – The Zen, il Threepeat, Ciao Shaq!

 

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Del Harris, grazie e arrivederci. Benvenuto Mr. Jackson.
Phil Jackson. L’uomo dei 6 titoli Bulls. Colui che ha reso Jordan un vincente.
Al ventunenne Kobe, che da quanto si è capito è molto ambizioso, scatta una scintilla: e se fosse lui il nuovo MJ? Un’ossessione che lo porterà a costruirsi una disarmante etica del lavoro, rendendolo uno stakanovista di prim’ordine, sportivamente parlando.

Purtroppo salterà le prime quindici partite con lo Zen in panchina a causa di un infortunio al polso, ma, vuoi l’influenza positiva del nuovo Coach, vuoi che prima o poi quella squadra sarebbe dovuta esplodere, Kobe, che per la prima volta in carriera supererà la barriera dei 20 a partita a fine stagione, insieme ai suoi compagni, raggiungono le Finals. E le vincono. Bryant ha un anello al dito. Ma al ragazzo ed ai suoi amici evidentemente piacciono molto. Quindi hanno la bella idea di vincerne altri due. Consecutivamente. Nei Playoff del 2001 il prodotto di Lower Merion sfiora la ridicola cifra di 30 punti a partita, che per un ragazzo di 22 non sono una cosa normale. Anzi, ripensandoci, non sono una cosa normale e basta.

Ma Kobe non vincerà il titolo di MVP delle Finals in nessuna di quelle occasioni. Andranno tutti sugli scaffali del suo compagno-rivale O’Neal.
Los Angeles sta diventando una città troppo piccola per entrambi.
O’Neal, dopo le Finals (perse) del 2004, andrà agli Heat.
Kobe è il Re di Los Angeles. E tra poco non solo di quella.

 

Terzo movimento: Precipitando – 81 per Toronto, MVP, 5 è meglio che 3.

 

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Il Black Mamba, in italiano Mamba Nero, è un serpente che vive soprattutto in Africa. È considerato uno dei rettili più velenosi e pericolosi al mondo.
Black Mamba è il nomignolo che si è affibbiato Bryant tra il 2003 e il 2004, periodo in cui ebbe diversi problemi extra-cestistici, i quali non verranno trattati qui.
Il Black Mamba era uno scudo, una barriera per proteggere il Kobe giocatore dal mondo esterno, spesso molto crudele, anche per chi è all’apparenza forte.

Ma soprattutto il Black Mamba è Kobe Bryant.

Non stiamo parlando più di un ragazzino. È una stella, è la stella dei Lakers, è i Lakers.
Si carica la squadra sulle spalle come solo un vero leader sa fare. E lui lo è.
Sarebbe stupido elencare mere statistiche di quel periodo, non renderebbero appieno il suo dominio sulla Lega. Il suo sogno di raggiungere MJ non era un’utopia, era una realtà più che possibile.

Il 22 Gennaio 2006 i Toronto fanno visita ai Lakers. Kobe, da buon padrone di casa, ha un regalo per gli amici canadesi. 81 punti. Chiamatelo egoista. Noi lo chiamiamo divino.
E nel 2008 lo chiamo MVP. Un MVP beffardo, perché a fine stagione non alzerà lui il Larry O’Brian, ma i Boston Celtics.
Le accuse sono quelle di essere un giocatore eccezionale, ma non in grado di portare la squadra fino in fondo. Ha vinto solo con Shaq.

Nei seguenti due anni il Black Mamba non solo indosserà due anelli in più, arricchendo la già ricca gioielleria di Casa Bryant, ma si porterà a casa anche il Bill Russell Trophy. È lui l’MVP. Questa volta fino in fondo.
Il veleno del Mamba paralizza.

 

Quarto movimento: Calando, Largo – “Hereos come and go, but Legends are Forever”

 

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Bryant è sul tetto del Mondo. Ma è proprio quando si è in alto che è più facile cadere.
E cadere fa male.
Ginocchia, caviglie, tendine di Achille, crociato. Il corpo non sta reggendo più il ritmo della testa e del cuore. Il guerriero si abbandona lentamente al suo fisico. Sprazzi d’orgoglio evitano che la sua fine non sia pienamente ingloriosa. Non aiuta la squadra, che crolla pezzo dopo pezzo, lasciando Kobe da solo, ma questa volta incapace di trainare la carcassa di quella che fino a pochi anni prima era una delle squadre più eccitanti della Lega.
L’ultimo toccante gesto d’amore verso il suo sport.

Tutti l’omaggiano. Lui cerca di ringraziare come può, cercando di fare al meglio quello che ha dimostrato saper fare magistralmente: giocare a Pallacanestro.
Philadelphia si alza tutta dopo averlo fischiato per anni, Boston, che gli ha rubato la gioia del Titolo dopo una stagione da MVP, gli dona parte del parquet del Garden. Jordan gli prepara un videomessaggio per l’ultima partita a Charlotte.
Ci siamo. Siamo pronti. Lui è pronto. Ma vuole ancora l’ultima parola.

13 Aprile 2016. 60 punti nell’ultima partita in carriera. Non è un essere umano. Non è come noi.

Lui è Kobe Bean Bryant. The Black Mamba.

 

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