Vite da NBA: Reggie Jackson

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Reggie nasce a Pordenone, in Italia, a poco più di 10 chilometri dalla base militare dell’USAF – l’aeronautica militare statunitense- di Aviano, dove lavorava il padre, Saul Jackson. Le sue prime parole furono italiane, perfino la sua tata era italiana, e fino alla maggiore età conviverà con la doppia cittadinanza italiana e americana. Come ogni figlio di militare, per tutta la sua giovinezza sarà un globetrotter, un viaggiatore del mondo per seguire gli impegni di carriera del padre. Dopo il soffio della sua terza candelina, Reggie e la sua famiglia, composta oltre ai due genitori anche da due fratelli, entrambi più grandi, Travis, già undicenne, e Trez, si trasferirono in Inghilterra, e dopo due anni tornarono nella madrepatria, gli USA.

North Dakota, poi Georgia, e ancora Florida e Colorado Springs, Colorado, dove la sua famiglia prenderà l’appartamento di un modesto condominio in periferia e Reggie andrà alla Palmer High School. La routine giornaliera però per Reggie non cambiava a seconda della location: sveglia alle cinque, sessioni di tiro nel campetto poco distante, poi allenamenti di football americano –dove se la cavava come quarterback- e di nuovo una dura practice con la palla a spicchi, per poi finire in palestra a fare pesi. Ah, nell’anno passato in Florida seguiva anche corsi di nuoto a livello agonistico. Nel “tempo libero” andava a scuola, dove otteneva sempre buoni risultati, specialmente in matematica, la sua materia preferita. Tutta la sua crescita, come cestista ma anche come uomo, che non è ancora ultimata, è esprimibile in quello che è il suo motto di vita “Early birds catches the worm”: la traduzione letterale sarebbe “l’uccellino mattiniero cattura il verme”, e non è poi tanto dissimile dal nostro detto “Chi tardi arriva male alloggia” se non nella sua concezione positiva, protagonistica, e non negativa. Questa frase è il leitmotiv di tutta la sua vita, vero e proprio pattern applicato con medesima forza d’animo e volontà ad ogni aspetto della sua vita.

Figura dominante nella crescita di Reggie è il più grande dei due fratelli, Travis, discreto giocatore di calcio e mentore in ogni sua scelta. E’ a lui che R-Jax si affida nei momenti più bui e difficili, e per una persona umile non sono pochi. Come quando dovette decidere il college: arrivava da una stagione pazzesca all’high school, 29.6 punti, 7.9 rimbalzi e 7.6 assist e aveva attirato le attenzioni di diversi college, nonostante molti facessero notare come quelle cifre fossero gonfiate dal contesto povero di talenti. Optò quindi per Boston College, dove giocò per due anni. La prima stagione, 2008-09, fu di forti adattamenti: non era più la stella della squadra, e infatti partì dalla panchina in tutte e 34 partite stagionali, e in venti minuti di media vide le proprie cifre calare fino a 7 punti e 2 assist di media, ma era la sua esplosività, in ambo i lati del campo, a farne un prospetto interessante e giocatore importante nelle rotazioni degli Eagles.

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Nell’estate si mise duramente al lavoro, per migliorare il tiro -la forma di tiro era assolutamente rivedibile per usare un eufemismo- e diventare perno chiave degli Eagles, complice la fiducia dimostratagli dal coach Donahue: infatti tendeva ad essere incostante perchè restio ad affidarsi ad una tecnica di tiro comprovata ed efficiente. Inoltre mise su 11 chili senza perdere nè agilità nè velocità e i risultati arrivarono presto: titolare, con le chiavi dell’attacco in mano, point guard atletica più che passatrice, difensore eccezionale grazie alla wingspan spropositata (sopra i due metri, oltre 15 cm più della sua altezza). A fine stagione decise di dichararsi per il Draft NBA 2011, dove fu scelto dagli Oklahoma City Thunder con la 24° scelta.

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La prima stagione fu deludente: coach Brooks, oltre ovviamente a Russell Westbrook, gli preferiva l’esperienza di Eric Maynor, e R-Jax vide il campo per appena 11 minuti di media in 45 presenze -venne mandato anche in D-League, per 3 miseri punti a partita, col 32% dal campo e il 23% da tre. Nei Play-off fu spettatore non pagante, e dalla panchina vide i suoi compagni di squadra arrivare fino alle Finals, per poi essere battuti dai Miami Heat di Lebron&Co. E’ nei Play-Off della stagione ’12-’13 che, complice l’infortunio di Russell Westbrook provocatogli da Patrick Beverley, assume un ruolo di maggiore importanza: passando da PG di riserva a titolare condurrà i Thunder alla vittoria della serie contro Houston per 4-3, e nella semifinale di Conference contro Memphis, persa per 4-1, fu uno degli ultimi ad arrendersi, portando sostanza (15.3 punti, 4.7 assist e 5.3 rimbalzi da titolare ai suoi primi Play-off giocati), con highlights come questa: La stagione 2013-2014 inizia con R-Jax che si afferma fra i migliori 6th man della lega: l’apporto che dà dalla panchina è simile a quello già ammirato dai tifosi Thunder due anni prima, quando il ruolo di sesto uomo della squadra allenata da Brooks lo deteneva tal James Harden (ah, come sceglie Presti ai draft…). Fra le partite migliori spiccano quelle contro San Antonio: la difesa che Pop aveva modellato sul big two Westbrook-Durant, si rivelò fallace quando dalla panchina usciva un giovane atletico, per certi versi simile a Westbrook, che mischiava le carte sopratutto quando giocava insieme ai due. Il sei febbraio partecipa al Taco Bell Skills Challenge, in team con Goran Dragic, e conclude la stagione fra i papabili candidati per il Most Improved Player (13.1 punti, 4.1 assist e 3.9 rimbalzi in 28 minuti col 44% al tiro) e per il Sesto uomo dell’anno, vinti poi rispettivamente da Goran Dragic e da Jamal Crawford. 2014 Play-offs, Memphis-OKC Prime tre partite, due vittorie dei Grizzlies, entrambe all’overtime, e una dei Thunder. La difesa degli Orsi, con Conley fisso su Westbrook, Allen su Durant, e un Thabo Sefolosha poco marcato ma incapace di dare un apporto offensivo importante, mette in crisi OKC. Si prospetta uno dei più improbabili ribaltoni, la settima squadra dell’Ovest che abbatte la seconda grazie ad accorgimenti tattici perfetti ed un’esecuzione maniacale. Ma poi, trentadue punti con sedici tiri, mentre KD e Westbrook insieme raccolsero un misero 11 su 45 dal campo. Lacrime, serie salvata, serie vinta poi grazie a questa prestazione. Inutile dire che fu il suo career high.

KD+Westbrook potevano essere arginati, ma KD+Westbrook+Reggie no. E i dati lo dimostravano facilmente, come il +24 di Net Rating quando questi ultimi tre erano in campo insieme (di gran lunga il trio migliore di quella stagione) ma Brooks non volle venir meno alla sua convinzione “la guardia titolare deve essere uno specialista difensivo –con poco tiro ndr– e il giocatore con più talento offensivo oltre i due campioni deve uscire dalla panca“. Stesso ragionamento usato per Harden. Ma non poté non schierare Reggie titolare da quella partita in poi, sarebbe stato troppo. I Thunder vinceranno contro i Clippers in maniera molto più netta, e perderanno 4-2 contro gli Spurs, causa infortunio di Ibaka e superiorità generale della compagine di Pop. Durant, nel suo discorso nella cerimonia di ricevimento dell’MVP, parlerà di Reggie come di uno dei suoi più grandi amici e di un ragazzo umile come nessun altro -e non è un caso che compri solo vestisti con doppio sconto, o che tuttora non abbia una propria macchina.

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Forse ora vi state chiedendo: perchè allora Reggie è a Detroit? Perchè è stato venduto l’ultimo giorno possibile dopo averlo offerto ai quattro venti? Perchè in questa stagione a OKC dopo le prime partite da titolare causa infortunio di Westbrook è tornato a fare il sesto uomo a favore di Andre Roberson?! Le risposte possono essere tante, la mia è che Brooks è venuto meno alla promessa fatta in estate (“sarà titolare accanto a Westbrook“) e che Reggie si è sentito sfiduciato tanto da chiedere la cessione. Ma magari la risposta ce la può dare lo stesso Reggie, quando disse: “Io ho un sogno: voglio guidare la mia squadra. Fin dalla mia infanzia mi sono dato questo obiettivo e voglio raggiungerlo”. E solo gli uccelli mattinieri mangiano il verme. Auguri Reggie.