“There is a road, no simple highway
Between the dawn and the dark of night
And if you go no one may follow
That path is for your steps alone”
Grateful Dead, Ripple
Quando un allenatore di college “produce” tanti grandi giocatori, il dubbio è che la grandezza non dipenda dal giocatore, ma dall’allenatore, specie se i grandi giocatori si ripetono a pochissima distanza. Così è per John Wooden a UCLA che, tra il ’65 e il ’74 allenò, uno in fila all’altro, Archibald Lewis Alcindor, poi convertitosi all’islam con il nome di Kareem Abdul-Jabbar, e Bill Walton.
E non è sicuramente un caso se un covo della controcultura come la California di quegli anni, incubò due degli intelletti più fini, e meno allineati, della storia del basket. Sia Jabbar che Walton, oltre che grandissimi giocatori, sono infatti uomini che si ascolterebbero parlare per ore, tanto il loro messaggio trascende il basket e sconfina nell’approccio alla vita.
E non potrebbero essere più diversi. Tanto ieratico, a volte musone, intellettualmente sofisticato e nweyorkese è Kareem, quanto pasticcione, un vero purosangue del microfono e inondato di cultura psichedelica californiana è Bill Walton. Di entrambi verrebbe da pensare che recitano una parte, e forse è inevitabile quando si incarna un personaggio per tanto tempo, ma al tempo stesso sono incredibilmente veri, il risultato di un periodo straordinario, pieno di stimoli e di personaggi che mescolavano lo sport alla cultura e alla vita civile.
Bill Walton nasce in California nel ’52. Da studente sbriciola un paio di record liceali ed è il primo, e finora unico, minorenne americano a giocarsi un mondiale, nel 1970. Approda a UCLA, dove John Wooden lo fa sbocciare, inserendolo in una squadra che vince 88 partite di fila, e da lì a Portland con la prima scelta assoluta del 1974.
Walton è il giocatore che fonda la leggenda della sfiga dei Blazers per le prime scelte. Quando arriva a Portland si rompe di tutto: piede, ginocchio, polso ed è il primo di una galleria che, oltre a lui, comprende Sam Bowie, Brandon Roy e Greg Oden. Per due anni è un oggetto misterioso che quasi non riesce a scendere in campo.
Quando, nel 1976, Jack Ramsey, al primo anno da head coach riesce a farlo giocare con continuità, Bill dimostra tutto il suo potenziale. In una squadra con Lionel Hollins come play, Maurice Lucas ala grande e un gruppo di volenterosi “operai” del parquet, Bill riesce a battere i 76ers di Doctor J in finale e a portare a casa l’unico titolo nella storia dei Blazers.
È una squadra guidata benissimo da uno dei più rispettati allenatori del college basketball. Dr Jack Ramsay possiede grande finezza intellettuale, è l’uomo giusto per succedere a John Wooden nella gestione di Walton. I Blazers sono una classica squadra della fine anni ’70: tanto teamwork, sacrificio, difesa e contropiede.
Dalla sua altezza, Walton illumina i Blazers con dei traccianti che servono Twardizk e Hollins, sotto canestro in difesa stoppa e prende rimbalzi. Nella regular season segna una media di 18 punti e prende 14 rimbalzi, e con 3,8 assist a partita è il miglior passatore nel suo ruolo. Nei payoffs i Blazers si sbarazzano dei Bulls, allora a ovest, poi incontrano i Nuggets in 6 durissime partite.
Quell’anno i Nuggets schierano Dan Issel come centro, Bobby Jones come ala forte e David Thompson ala piccola. Un trio ad alto contenuto offensivo che impegna duramente i Blazers, tanto che in gara 6 sono decisivi i 25 punti del rookie Johnny Davis, mentre Walton in difesa lotta contro Dan Issel, centro noto al tempo per la grande finezza di movimenti da vero allievo di Kentucky.
In finale di conference, i blazers vincono facile contro i Lakers di Kareem, mettendo in piedi un duello tra i due più importanti discepoli di Wooden a UCLA,che non mantiene le attese per la superiorità del gruppo dei Blazers. Kareem fa una media di 30 ma è l’unico della sua squadra a emergere. I Blazers giocano compatti e cancellano i Lakers con un 4-0 che non ammette repliche.
In finale, contro i 76ers di Doctor J e di un giovane Darryl Dawkins, Walton guida i suoi alla rimonta dopo aver perso le prime due partite. In gara 3 i sixers decidono di usare meno il tiro di Collins, ma sotto canestro con Lucas e Walton non c’è fisicamente spazio. I Blazers vincono quattro partite di fila e portano a casa il titolo in pieno marasma da Blazermania.
Bill Walton è a modo suo il vertice di un ruolo e di un tempo. il grande pivot, che si estinguerà con l’avvento del tiro da tre, in un basket raccolto intorno all’area dei tre secondi è una tigre, un elefante che rende impossibile avvicinarsi al canestro. Eppure il gioco non può fare altro, perché non c’è una convenienza a tirare da lontano, quindi “bisogna” avvicinarsi a canestro.
Le difese corrono meno perché c’è meno spazio da coprire e in questo ambiente il freak, il gigante che negli anni ’20 sarebbe stato la vedette di un circo, diventa il cardine delle squadre vincenti. Negli anni ’70 i grandi centri dominano: Kareem, Chamberlain, Cowens, Walton, Sikma, Unseld, Reed e Clifford Ray, vincono i titoli, ma sono anche giocatori oggi improponibili.
In un basket che richiede al centro magari 5 o 6 blocchi prima di prendere palla, i giganti lenti che arrivano dall’altro lato in dieci secondi sono improponibili. Forse solo Wes Unseld potrebbe stare nel gioco di oggi. Nel gioco anni ’70, senza tiro da tre, sono invece le architravi delle squadre vincenti, fanno sbilanciare i poteri della lega e decidono le partite.
Per questo le immagini di quella stagione, che ci riportano un basket diversissimo da quello di oggi, ancora ci affascinano. Il Walton del ’77, come il Jabbar dei primi anni ’70 e dei primi anni ’80, o Chamberlain, o Sikma, è un reperto archeologico, un’opera di storia dell’arte cestistica da studiare come si studia una scultura di Rodin o si rilegge costantemente una Divina Commedia, per trarne sempre nuova ispirazione.
E non può non meravigliare che la storia di Walton non finisca nel ’78, quando gli infortuni lo fermano per molto tempo. Finisce ai Clippers per alcuni tormentatissimi anni in cui fatica a giocare. Poi, nel 1985, la rinascita.
Walton, alla fine dell’avventura con i Clippers, sperava di poter andare ai Lakers, ma Jerry West non si fidava, voleva un report medico. Walton allora chiamò Red Auerbach, che era seduto nel suo ufficio a parlare con Larry Bird. Auerbach chiese consiglio a Larry, che fu subito entusiasta di poterlo avere con sé e non fece storie, fidandosi della parola di Bill.
In finale i Celtics trovano i Rockets delle twin towers Olajuwon e Sampson, che hanno sorprendentemente eliminato i Lakers. Bill gioca una buona serie, resta in campo almeno 20 minuti e segna almeno 10 punti in quattro occasioni.
Si accende una speranza, in quel 1986, che il basket restituisse a lui, ma anche ai tifosi e agli amanti del gioco, uno dei protagonisti di cui maggiormente si era favoleggiato. Per un attimo si accarezza la speranza che Bill giochi altri dieci anni, mostrandoci finalmente tutte le meraviglie cestistiche che i suoi infortuni ci avevano sottratto.
Ma era pura illusione. Gli dei del basket avevano concesso un ultimo brivido, nulla di più. Bill Walton era di nuovo sceso in campo mostrandoci lampi di bellezza sublime, una lettura del gioco come pochi hanno mai avuto in campo e delle mani fatate nel passaggio, scienza in cui, come centro, non ha forse mai avuto epigoni fino a Arvidas Sabonis e Marc Gasol.
L’anno successivo si infortuna e cerca invano di tornare in campo, dovendosi poi ritirare addirittura nel 1987.
Oggi Bill cammina a malapena, portandosi addosso le cicatrici di una ferrea volontà di giocare, che contrasta con l’apparenza easy del californiano psichedelico. Suo figlio Luke, con metà del talento o forse meno, ha guadagnato dieci volte tanto e ora è un allenatore in rampa di lancio dei giovani Lakers. Bill ha un bel sito internet pieno delle sue passioni, tra cui i Grateful Dead.
Tra i giocatori di basket, forse nessuno è tornato per un giorno dalla notte cestistica come lui, prendendosi gioco dei fantasmi del suo fisico fragile e potente. Bill era costruito per dominare con la forza bruta, con le dimensioni fisiche, ma le sue disgrazie fisiche lo hanno reso un giocatore capace di vedere oltre lo spazio del gioco, costringendolo a usare la finezza invece della forza e l’immaginazione invece della concretezza.
Per questo è rimasto un rimpianto per chi lo ha ammirato e penserà sempre, come con Arvydas, a quali incredibili vette sarebbe arrivato se fosse stato sano.
Ma si sa che gli dei, e il fato, non danno mai tutto, e quando donano talento in quantità, lo fanno a costo di qualcosa. Anche di prostrare uno dei più grandi talenti che John Wooden abbia mai allenato.
Buon compleanno Bill.