Di normale nella vita di Dwyane Wade c’è stato tutto e niente: è il caso di mettere da parte la retorica dell’atleta afroamericano ribellatosi al pantano del ghetto, la famiglia Wade era di buone origini e i genitori di Dwyane equilibrati al punto da rimanere in buoni rapporti anche dopo la separazione, nonostante qualche problemino di droga per la madre. Gli eventi che hanno reso Wade speciale rispetto alla maggior parte dell’umanità sono quelli accaduti esclusivamente sul parquet, soprattutto per via del fatto che di tutto si trattava tranne che di uno baciato in fronte dal talento, ma che grazie ad un’abnegazione fuori dal comune ha compiuto la sua ascesa lasciandosi alle spalle molti che erano considerati predestinati. A partire dal ”dualismo” col suo fratellastro Demetrius, il vero talento della seconda famiglia, Dwyane era messo in posizione subordinata, anche se dalla sua parte aveva sia il padre che lo stesso Demetrius ad incitarlo a dare il meglio, in entrambi gli sport che praticava, ovvero basket e football.
L’etichetta dell’underdog lo accompagnò anche al college dove, non prima di essere rifiutato dalla maggior parte delle squadre, venne accolto da Marquette, non direttamente dall’Head Coach, bensì dal suo assistente Tim Buckley, che riuscì a scorgerne fin da subito lo spiccato tratto caratteriale. Ma la tenacia che lo contraddistingueva non bastò a guadagnarsi subito il posto in squadra, anche se non passò inosservata agli occhi del Coach, che sfruttava ogni pausa per discutere con Dwyane su come si sarebbe comportato in una determinata situazione di gioco, nel frattempo lavorava ossessivamente per colmare le sue sensibili lacune tecniche. Questi attestati di stima si tramutarono ben presto in minuti nel suo secondo anno al college, ripagati con numeri e atteggiamento da leader del team, fino a che nel suo ultimo anno non riportò Marquette alla Final Four e conquistò diversi encomi individuali. Era il momento di fare il grande salto.
Il suo nome, seppur tra quelli caldi, passò in sordina anche all’interno del Draft 2003, considerata la generazione di fenomeni venuta fuori in quell’annata, LeBron James e Carmelo Anthony in primis. Poco male per uno abituato a rincorrere, che si ritrovò in uno scacchiere già rodato come quello di Miami e in grado di competere per un posto nei playoff, traguardo raggiunto con tanto di turno superato, grazie anche a diverse giocate clutch del nativo di Chicago, prima di cedere il passo ai Pacers. Un’ulteriore salto di qualità della franchigia avvenne l’anno successivo quando a Wade, ormai star affermata, venne affiancato il centro dominante per antonomasia: Shaquille O’Neal. Solo i Pistons campioni in carica, soffrendo tremendamente, fermarono il cammino degli Heat in finale di Conference. Nella vita di Dwyane tutto è accaduto per gradi e ottenuto faticosamente quindi, a rigor di logica, l’anno successivo avrebbe dovuto essere quello dell’ultimo step verso l’alto. E sarebbe stato il migliore della sua carriera…
Nonostante le ottime premesse ai nastri di partenza, ”Flash” si ritrovò presto come unico timoniere della squadra per via dei problemi fisici di Shaq. Allo start lento con un record che si aggirava attorno al 50% di vittorie, si aggiunsero gli attriti tra dirigenti e staff tecnico che spinsero Pat Riley a riprendere in mano la lavagnetta, scontento dell’operato di Stan Van Gundy. Alla prima dopo il ritorno in panchina dell’ex Lakers, Wade lo accolse con un quarantello che suonò come una dichiarazione d’intenti ben precisa: insieme sarebbero arrivati lontano. Malgrado qualche acciacco di troppo, Wade e Shaq condussero gli Heat fino alla pole position ad est, accreditati come principali favoriti per accedere alle Finals 2006. Dopo i primi turni relativamente agevoli, con Wade mai al di sotto dei 20 punti segnati, le strade di Miami e Detroit si incrociarono in finale dando vita alla tanto attesa rivincita. Affrontare i Pistons per una guardia di talento era asfissiante all’epoca (chiedere a Kobe per conferme) e Dwyane risentì di queste particolari attenzioni, ma ebbe la meglio la sua proverbiale cocciutaggine unita ad una grande serie di O’Neal. La vendetta era stata servita, ma l’ultima cima era quella più ardua da scalare. Miami si presentò alla vigilia delle Finals da sfavorita, e non poteva essere altrimenti per uno come Wade, Dallas aveva dato una sensazione di solidità assoluta per tutto l’arco della stagione. Dirk insegnò basket per i primi due episodi della serie giocati in Texas e la sfida, oltre che segnata, risultò scarsamente spettacolare. Ribaltare una situazione del genere sembrava infattibile, e il + 13 a favore dei Mavericks con 6 minuti da giocare in gara-3 confermava questa sensazione, fino a che il ruggito del prodotto di Marquette non distrusse le certezze degli avversari svoltando l’inerzia dell’intera serie. Sull’onda dell’entusiasmo Miami stravinse gara 4, con Wade che non volle saperne di scendere sotto ai 35 punti segnati. Ma l’ingresso nella memoria collettiva degli appassionati avviene in gara-5 quando, al termine di una sfida mozzafiato, prima mandò la sfida al supplementare e poi la decise con i liberi che valsero il 3-2 Heat. Dallas realizzò di poter perdere quell’anello a cavallo tra il terzo e il quarto periodo di gara-6, ovvero quando ad un Wade imperversante si aggiunse il contributo del supporting cast. L’underdog, abituato a far ricredere gli scettici, quella volta esagerò, e le prestazioni che gli valsero il titolo di MVP delle finali costituirono il motivo di uno dei più grandi rovesciamenti dell’ultimo ventennio.
“He’s special. There’s not an area in this game that he does not excel in and there’s not a possession that goes by that he doesn’t want to get better.” Questa l’investitura della leggenda Larry Brown, che ha battuto ed è stato battuto da Wade quando allenava ai Pistons, e che aveva capito che l’asticella per quel ragazzo non era mai abbastanza in alto.