Cento di queste stagioni – Paul Pierce e Doc Rivers

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Sono passati quasi dieci anni, un’epoca a livello generazionale e tattico per una Lega in continua evoluzione come l’NBA, dove, buttandola sulla battuta ovviamente, uno sport per “gente di due metri” sta diventando uno sport per “gente di un metro e ottanta” nel giro di una decade.

Quasi dieci anni dal 17esimo banner della storia dei Boston Celtics, creato dal nulla da un’estate folle, un istinto da squalo di Danny Ainge, una stagione disastrosa, la solita “fortuna” a livello di Draft dove fortuna assume in pieno la sua connotazione più latina e romanza.

La stagione disastrosa in questione è targata 2006-2007 con il Doc, Glenn Rivers capo coach e Paul Pierce sempiterno capitano della brigata verde, nativo di Oakland, leggenda vivente in campo con la canotta verde n°34 dal 1996.

La stagione parte con Paul che si rompe il piede destro, 24 partite saltate a cavallo tra dicembre e febbraio che fecero crollare vertiginosamente la classifica dei Celtics (i quali mossero la classifica solo due volte e ne persero 18 di fila, peggior losing streak della loro storia) ed altre 11 successivamente (2-9 il record), la squadra è talentuosa ma da sgrezzare (Tony Allen, Al Jefferson, Rajon Rondo, Gerald Green) e non può fare a meno dell’apporto offensivo di Paul, alcune presenze bizzarre come Delonte West, Michael Olowokandi e Brian Scalabrine e una lottery malvagia.

In offseason Paul lancia il suo ultimatum: una squadra competitiva qui a Boston o altrove.

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Ainge si mette in moto: arrivano nella notte del Draft Ray Allen e Glen Davis (preso con il secondo giro da Seattle) in cambio di West, Jeff Green (preso poi con la quinta scelta venuta fuori dalla lottery) e Wally Szczerbiak. Questa mossa apre la strada al capolavoro della carriera di Danny come GM: l’arrivo nella Beantown di Kevin Garnett.

Mezzo roster fa le valigie (Jefferson, Sebastien Telfair, Ryan Gomes, Theo Ratliff e Gerald Green) per sigillare la nascita dei nuovi Big Three, affamati ed in cerca dell’anello. Ora le prospettive di Boston si fanno rosee ed il problema venutosi a creare con il trasferimento di tutta la panchina a Minnesota viene sistemato con le firme di Eddie House, Scot Pollard e James Posey arrivando a 14 elementi a roster con un posto libero in caso di evenienze. Tra i retroscena di questi accordi c’è da mettere dentro anche la mancata firma di Reggie Miller, tentato fino all’ultimo di ritornare a calcare i campi in barba al suo ritiro avvenuto due anni prima.

Il risultato di tutto questo tornado di eventi è spettacolare: 42 vittorie rispetto alla stagione passata, record NBA in materia di turnaround seasons, primo posto nella Eastern Conference e ovviamente anche nell’Atlantic Division.

Già nelle prime 8 partite si intravede il percorso che li porterà alle Finals: un Garrnett che domina in punti assieme a Pierce e nel pitturato con Kendrick Perkins, un Allen che sembra rinato e Rondo che comincia a prendere confidenza e fiducia nel suo talento e in quello dei compagni. Il vero capolavoro di Doc Rivers non è stato però tanto nel far coesistere un amalgama di qualità del genere in fase offensiva quanto nello spirito di squadra e di sacrificio che i Celtics mettevano in campo quando la palla ce l’avevano gli altri: un assetto difensivo molto mobile che vedeva Allen e Rondo prendere il backourt avversario poco avanti alla linea dei 3 punti con Pierce e Garnet a proteggere le ali e Perkins ancorato al centro.

La particolarità della difesa però sta nel suo atteggiamento: aggressivo verso il portatore di palla (spesso Rondo si occupava del compito, una vera dinamo in campo) e focus mentale proiettato sulla chiusura delle linee di passaggio, canovaccio tattico perfetto per esaltare le caratteristiche di Rajon e rendere più facile a tre difensori, ottimi sia a difendere in anticipo che in marcatura one on one, la copertura del resto del campo con Perkins ad occuparsi di tutto ciò che passa dal pitturato.

Tutto il sistema dei Celtics ideato da Doc Rivers si riassume perfettamente in una parola: ubuntu.

Ubuntu, la “benevolenza verso il prossimo” nelle lingue bantu, l’”io sono in virtù di ciò che tutti siamo”, l’unione totale dei singoli in un’unica entità, la forma più pura della collaborazione tra uomini.

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Con un Pierce in grande spolvero come mai si era visto i Celtics arrivano tranquillamente alla pausa dell’All-Star game 36-8 vincendo spesso anche in maniera molto “grindy” come la trasferta a Charlotte del 24 Novembre risolta ancora da due sontuosi Pierce e Garnett in un 96-95 suggellato da una bomba allo scadere di Allen dopo che Eddie House si impossessò del pallone da un passaggio malaugurato di Jason Richardson a 4.7 secondi dalla fine. Ubuntu, no?

Poi niente, Pierce si inventa anche GM e procuratore tutto in una volta e durante l’All-Star Game si intrattiene a parlare con PJ Brown che firma una settimana dopo per Boston a cui si aggiungerà verso Marzo la firma di Sam Cassell, compagno di tante battaglie di KG. Il roster è ufficialmente fatto e finito.

É tempo di Playoff e, nonostante le premesse, le questioni si mettono piuttosto male: la prima serie contro gli Hawks è “grindy”, 4-3 stiracchiato con le squadre si tengono i loro vantaggi campo ed una Gara 4 vinta che viene completamente ribaltata da Joe Johnson e Josh Smith per rimettere in carreggiata un’Atlanta quasi fuori dai giochi.

Ancora una volta la difesa è fondamentale: 72 punti di media lasciati nelle prime due partite 26 nel primo tempo di Gara 7 chiusa a 65 dagli Hawks.

Semifinali di Conference contro i Cavaliers di LeBron dove i Celtics passano pur non segnando mai più di 100 punti in tutta la serie, nonostante un James avvelenato che segna, prende rimbalzi, fa assist, difende con estrema naturalezza.

Sarà una battaglia epica Gara 7, con James a quota 45 e dall’altra parte Paul a 41, fondamentali per il 92-97 per i verdi. Una battaglia senza quartiere, ogni maledetta azione, attacco e difesa incessante, un clinic di comunicazione e collaborazione dei Celtics dentro ad un clinic difensivo dello stesso Pierce. Poi LeBron ne fa 45 comunque. Quasi la metà esatta del totale dei Cavs. Difficile trovarci un senso logico.

 

https://youtu.be/POHK-wk5p0s

 

Due capitani, due leggende delle rispettive squadre che hanno rischiato di lasciare la baracca neanche un anno prima si giocano l’anello rappresentando una delle rivalità più accese dell’intero mondo dello sport.

 

https://youtu.be/JkXnQba6Phg

 

Semplicemente il miglior basket della carriera di Paul Pierce, il basket di un Finals MVP, il basket di uomo in missione e non ha intenzione di fare prigionieri.

Dopo 26 partite (record anche questo, battendo le 25 dei Pistons 2005 e dei Knicks 1994 dove anche Doc Rivers era presente) oltre alle 82 di RS l’anello è dei Celtics, record per vittorie in casa (13) e sconfitte fuori casa (9).

 


Il resto poi lo conosciamo tutti, la trade a BK, Wizards ed infine ai Clippers dove il Doc lo vuole ancora per un’ultima scampagnata insieme alla ricerca del secondo anello, con Rajon Rondo che prende la forma di Chris Paul e Blake Griffin quella di Garnett. All’alba del suo possibile ultimo anno, Pierce, Rivers e i Celtics del 2008 hanno lasciato una legacy importante per l’NBA: Ubuntu.

Paul ha nei piani di ritirarsi con la sua canotta, la 34 di Boston a fine stagione. Wow.