Vite da NBA – Dražen Petrović, un sogno interrotto

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7 giugno 1993
– Pronto?
– Ciao Nic, sono io, Dražen.
– Ohilà, ciao campione! Come va, sei già a casa?
– No no, magari: siamo ancora in Germania, in uno di quei posti con 8 consonanti consecutive. Ti ho chiamato perché non ce la facevo più ad aspettare, volevo dirtelo subito: sono entrato nel 3° miglior quintetto NBA. Finalmente se ne stanno accorgendo, di chi sono.
– Che bella notizia! Sapevo che ce l’avresti fatta, fin da quando sei arrivato qui in Oregon!
– Grazie avvocato, sei un amico. Tra non molto dovremmo arrivare a Monaco, se riesco mi faccio una dormita in macchina.
– Cosa c’è, gli sloveni in Polonia ti hanno fatto stancare?
– Sì, come no… Gliene ho rifilati 30 senza neanche sudare. Ora scusa ma devo scappare, ripartiamo. Ti richiamo dalla Croazia!


Autobahnservicebetriebe. Svincolo. Alberi. Buio.
Sono i primi anni ’70, il piccolo Dražen è nella sua casa di Šibenik, dove vive con la mamma bibliotecaria, il papà poliziotto e il fratello maggiore Aleksandar, per tutti Aco, di cui segue le orme. Aco gioca a basket ed è un tipo tosto, ma Dražen sa di essere migliore di lui. Già da bambino, Dražen SA di essere migliore di tutti: sua madre gli ha raccontato che durante la gravidanza è andata alla sorgente di un fiume lì vicino, e ne ha bevuto l’acqua magica. Lui non può che essere il migliore. È a casa sua, e palleggia. Quel pallone non lo molla mai, il fratellone gli insegna qualche mossa e lui si esercita allo sfinimento, finché quella mossa non diventa sua. Le ore sono secondi, quando Dražen ha un pallone da basket in mano.
Esce, va a casa Spahija a trovare il suo migliore amico Nevan, sempre portandosi dietro la palla, tirando nei cestini, dribblando i tombini. Lui è l’unico bambino che i ragazzi più grandi non tormentano incrociandolo per strada, perché anche loro sanno che è speciale. Il migliore. Manca ancora qualche minuto all’alba, Dražen però sorride mentre spegne la sveglia e si prepara per uscire, pensa a quello che lo aspetta: va di corsa fino alla palestra, dove farà i soliti esercizi in solitaria per migliorare il palleggio e i soliti 500 tiri. Sono la sua colazione, senza quelli la giornata non può iniziare. Poi a scuola, e finita quella si fionda di nuovo in palestra per l’allenamento. È il suo pranzo, gli serve per tenersi in forze. Dopo i compiti, altra sessione di tiro: Aco non deve mai più aver motivo di dirgli che tira come Fred Flinstone, ché ogni palla che lascia andare spacca le pietre. Come cena, può bastare. Dražen mangia basket, respira basket, vive di basket. Ora lui e Nevan sono un po’ più grandi, stanno guardando insieme una partita NBA che arriva dalla televisione italiana; le immagini non sono nitide, il segnale è debole, ma non è quello che fa sembrare lontani i giocatori americani: è come giocano, è tutto il mondo NBA che sembra lontano anni luce.


Musica alla radio. Pioggia. Via la cintura di sicurezza che non fa dormire. Buio.
Dražen arriva al palazzetto del KK Šibenka, la squadra della sua città natale, e come spesso accade nota dei pullman parcheggiati. Sono per lui: non ha ancora 18 anni, ma già la gente viene da fuori per vederlo giocare.


Oggi poi l’avversario è il Cibona, tra le cui fila compare suo fratello. Sembra impossibile, ma quando deve affrontare Aco la voglia di competere di Dražen sale di un altro paio di gradini. Si gioca, e come quasi sempre accade il Cibona, schiacciasassi del campionato jugoslavo, non ha troppi problemi nel metter sotto la squadra di Šibenik; ma come altrettanto spesso accade, Dražen sta facendo nero suo fratello. Gli sta addosso, lo cerca, gli segna in faccia in qualunque modo e, per il disappunto di mamma Biserka, farcisce il tutto con abbondante trash-talking. Dražen in difesa è un lampione, ma quando va in attacco diventa la luce. Fulmineo, inarrestabile. Nel derby tra fratelli Petrović è abitudine che la squadra di Aco porti via i 2 punti, ma il 40ello di Dražen è la regola.


Adesso invece lui e Aco vestono la stessa maglia, quella del Cibona. E sono guai per le difese avversarie. La prima partita in maglia Cibona è proprio contro il Šibenka, e Dražen ne rifila 56 sul groppone degli ex compagni di squadra. Il cuore è il cuore, ma sul campo non esiste spazio per i ricordi. 1984, primo anno a Zagabria, il giovane Petrović vince Campionato e Coppa nazionale; nella finale di Coppa dei Campioni 1985, ne piazza 36 al Real Madrid, in quella dell’anno dopo 22 allo Zalgiris, senza contare i 46 in finale di Campionato contro il Bosna. Tutte finali vinte, ovviamente. Dražen non sopporta la sconfitta, quasi non la concepisce. Gioca solo per vincere.


Subito è il 23 gennaio 1986, il suo Cibona affronta il Limoges; i croati sono sotto di 16, il loro gioco non gira. La soluzione è molto semplice: palla al numero 10. E se non gliela danno, se la prende. Dražen infila 7 bombe una dietro l’altra, e intanto trova anche tempo per alzare i pugni verso i suoi tifosi e provocare gli avversari coi soliti comportamenti che fanno storcere il naso alla mamma. Cibona vincente, neanche da chiederlo. Stasera invece ha fatto appena in tempo a metterne 112 (centododici) sommergendo l’Olimpia Ljubljana in una gara di campionato, quando suona la sirena… Ma più che una sirena, sembra un…


Fischio del treno che costeggia l’autostrada. Temporale. Sorpassiamo una BMW. Buio.
La mano sul cuore, lo sguardo fiero, l’orgoglio di vestire quella maglia, il sottofondo di note dell’inno jugoslavo. Dražen ha 19 anni ed esordisce in Nazionale agli Europei del 1983, al fianco di campioni come Dalipagić, Ćosić e Kićanović, oltre al solito fratello Aco. Ormai il primo turno è andato, sono passate Italia e Spagna, il treno per il podio è irrimediabilmente perduto. Alla prima gara in cui coach Đerđa gli dà spazio, Petrović dimostra quanto vale: 20ello a Israele; in quella dopo, l’ultima jugoslava di EuroBasket ’83, la Germania se ne vede fare 25 da questo ragazzino con la afro.

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Di colpo Petrović si trova nel 1990 in Argentina: schiaccia a terra per Paspalj, il quale non sa bene se affondare o appoggiare e la mette sul secondo ferro; arriva Savic e segna in tap-in allo scadere, ma ormai conta solo per le statistiche: la Jugoslavia ha annichilito la Russia di Volkov & co., finalmente è campione del mondo. Subito Dražen va ad abbracciare il suo amico per la pelle, Vlade Divac, che di ricambio lo alza da terra. A due spanne da terra, è così che continua a camminare Petrović: dopo il suo primo anno a Portland passato più a veder giocare i compagni che a dimostrare di essere il migliore, questa è la soddisfazione più grande della sua carriera. Per di più in un momento storico tragico per la sua gente, con la regione della Croazia in subbuglio e dichiarazioni d’indipendenza a ruota libera, la vittoria della Jugoslavia unita poteva essere un segnale forte per tutti. Un tifoso viene a festeggiare verso i giocatori, ghermisce una bandiera in mano. Quella della Croazia di Dražen. Vlade Divac, quello stesso amico fraterno che Dražen ha tenuto ore al telefono durante l’ultima stagione NBA ad ascoltare le sue frustazioni per i pochi minuti in campo con i Blazers… Quel Vlade Divac va incontro al tifoso, lo ferma e lo spinge via strappandogli la bandiera dalle mani. Vlade è serbo e Petrović vede in questo sfregio verso la bandiera croata uno sgarbo indigeribile. Con la medaglia d’oro sul caminetto di casa dei suoi e la guerra serbo-croata alle porte, Dražen è risoluto: non parlerà mai più al suo ormai ex amico Vlade.


Tuono. Una carezza a Klara che guida. Tergicristalli frenetici. Buio.
13 novembre 1990: Petrović è in palestra; tutti se ne sono andati già da almeno un’ora, ma lui è rimasto a tirare da solo. E intanto ripensa alla partita appena vinta di 26 contro Denver, in cui ha giocato solo 2 minuti. Ogni tiro ha dentro la rabbia del leone in gabbia, ogni canestro è un ruggito. Ovviamente, ogni tiro è un ruggito. Intanto gli torna in mente tutta la stagione precedente, quella da rookie NBA, in cui ha dovuto ingoiare parecchi rospi; ogni tanto riusciva a far vedere di che pasta era fatto, dimostrava il suo talento, ma quelli semplicemente non volevano dargli una chance.


C’erano Drexler, Porter e Ainge davanti a lui, e scalzarli dalle rotazioni era impossibile. A niente sono serviti per esempio gli 11 punti in 9 minuti di gara 6 di finale di Conference, vinta di 3 contro Phoenix. Nelle successive 5 partite di finale contro Detroit, Dražen è stato seduto quasi tutto il tempo. E quest’anno la solfa sembra la stessa, con 11 minuti totali giocati nelle prime 6 partite. I compagni di squadra però sanno che lui è un giocatore che potrebbe sfondare anche in NBA; soprattutto Drexler lo ha capito bene, fin dal primo giorno di allenamento. Terry Porter, poi, vuole giocare anche su una gamba sola pur di non lasciare spazio a Dražen, perché sa che perderebbe il posto in un amen. Petrović ha deciso: domani stesso chiederà di essere scambiato. Ora ha finito la sua solita sessione di tiro post-allenamento, è il 24 gennaio ’91; si sta preparando per andare a cena fuori col suo amico Clyde, quando un dirigente dei Blazers lo ferma e gli dice di fare le valigie: ora è un giocatore dei Nets. Petrović non aspetta un secondo di più, vuole partire subito per il New Jersey perché l’indomani c’è la partita contro i Lakers di Divac, deve esserci. Prende il volo della notte, e intanto pensa a quando aveva lasciato Madrid con destinazione Portland, salutando il Real sempre di notte, perché anche allora non c’era tempo da perdere. Almeno così credeva, ma di tempo gliene hanno fatto perdere fin troppo, 18 mesi. Finalmente è giunta l’ora del riscatto. Da lì in poi è un crescendo Rossiniano, nonostante qualche anno prima in Italia un giornalista, tale Enrico Campana, lo avesse soprannominato il “Mozart dei canestri”: chiude la stagione ‘90/’91 in doppia cifra di media, in quella dopo arriva addirittura a superare i 20. 31 gennaio ’92: Dražen torna al Memorial Coliseum di Portland. Non è la prima volta che affronta i suoi ex compagni a casa loro, ma non lo aveva mai fatto da star NBA. Appena mette piede in campo scatta la standig ovation da parte dei tifosi dei Blazers, e a Petrović vengono i brividi. Capisce che hanno sempre creduto in lui, anche loro in fondo sapevano che era il migliore. La sconfitta brucia sempre a Dražen, anche quando era prevedibile: è il 9 maggio 1993, i Nets hanno appena perso gara 5 di primo turno playoff contro Cleveland, e sono fuori 4-1. Lui è sempre lì a tirare da solo e gli rode aver perso, ma patisce ancora di più la poca considerazione che gli americani hanno di lui: l’estate scorsa ha vinto l’argento alle Olimpiadi trascinando la sua Croazia e facendo sudare il Dream team per i primi 10 minuti, quest’anno è stato l’11° miglior realizzatore dell’NBA, ha fatto meglio di tutte le guardie, Jordan compreso, tirando col 52% dal campo, ha tenuto botta a teste calde del calibro di Reggie Miller

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Ma fingono ancora di non vedere, di non sapere che è lui il migliore. L’hanno convocato per la gara del tiro da 3, ma lui voleva solo l’All-Star game: Dražen appartiene al campo da gioco, non agli spettacoli da baraccone. Ora che la stagione è finita, Petrović non sa se rinnoverà con i Nets: loro stanno tentennando e non gli hanno offerto subito un nuovo contratto, e lui ha ambizioni da titolo, come sempre vuole vincere. Magari al di là dell’Holland tunnel, visto che Pat Riley ha speso parole al miele per lui… Si schiarirà le idee durante l’estate, mentre girerà l’Europa per le qualificazioni agli Europei con la sua Croazia.


Gomme che stridono. Klara urla. Muso di un camion. Buio.


Petrović il migliore, Petrović il primo: primo non americano a partire titolare in un All-Star game, primo a vincere il titolo di MVP, primo a guadagnarsi un anello NBA. Petrović che appiana le divergenze con Divac. Petrović che dopo aver smesso di giocare insegna ai ragazzini l’importanza del lavoro in palestra, la voglia di primeggiare. Tutto in un sogno che è rimasto tale, nel sonno ristoratore di un banale viaggio di ritorno a casa.
Dražen Petrović: Šibenik, 22 ottobre 1964 – Denkendorf, 7 giugno 1993.