Vite da NBA: James Worthy

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Le strade di LA di sera non sono molto raccomandabili, ma James conosce bene la strada fino al Forum. Guida con calma, come fa sempre prima di una partita. La macchina risponde ai suoi comandi con calma, lui non è uno da guida veloce. La velocità la tiene per il campo da basket. In macchina no, non serve. La gente ogni tanto lo riconosce per strada, lo indica, ma nessuno lo disturba, a LA le celebrità sono diffuse come la sabbia, e un Worthy non fa più differenza. Poi, lui non è più la sensazione, è la sostanza, il tempo, quello che è rimasto da una decade meravigliosa, forse il prodotto più puro dello showtime losangelino.

Semaforo rosso. Ci pensa, ogni tanto, a quando Magic gli passava la palla in contropiede, scommettendo che lì, nel retrovisore, James stesse arrivando a tutta velocità con tutta la squadra avversaria che lo guardava. E pensa ai tempi di North Carolina, quando era la stella e oggi fatica a spiegarlo a suo figlio, che è convinto che nella finale dell’82 Micheal abbia fatto tutto da solo, e non solo quel tiro che Dean Smith gli ha dato perché lui e Perkins erano troppo marcati. brendanmarshall929.wordpress.com Michael… chi l’avrebbe detto, negli anni ’70, che una guardia sotto i due metri avrebbe rivoluzionato il gioco? Pensare che hanno quasi la stessa età, ma è come se avessero vissuto in due ere diverse. James arriva nell’NBA nel 1982, è da subito nella squadra più forte, che perde però le finali dell’83 forse perché un Signore più in alto aveva deciso che si doveva premiare il Doctor, e tutti o quasi i Lakers erano finiti all’infermeria: lui, Kareem… Michael, invece, arriva ai Bulls. Oddio, i Bulls! Solo uno col carattere di Michael poteva reggere gente come Theus, Dailey, una banda di “smandrapponi” con talento ma impossibili da mettere in una squadra. Invece no, lui ci riuscì e li portò ai playoff, ma era una fatica di sisifo, non come gli anni di James, con Magic, Kareem, Byron, Michael Cooper, a lottare contro il Doctor, contro Bird, Hakeem. Forse a lui, pensa, è sempre andata bene. Nasce in North Carolina. È una stella alle medie, alle superiori, poi arriva Dean Smith. A North Carolina gioca con Al Wood, con Sam Perkins, con Micheal, ovviamente, ma fin che c’è lui, è la stella della squadra. James Worthy. 28 punti in finale su Georgetown, Ewing che non sa da che parte fermarlo. Il migliore della Final Four 1982.

Il semaforo diventa verde. Poi, i Lakers, prima scelta, un anno a imparare da Wilkes, a stare allineato, anche scatenandosi nel contropiede. Squadra vera, i Lakers, con gerarchie precise nello spogliatoio, giocatori vincenti, voglia di emergere. Certo, quando schiacciava in contropiede, il braccio teso in alto, ai mille all’ora, nessuno lo prendeva. E il suo movimento spalle a canestro? Parte una canzone di Al Green, “let’s stay together”, e James muove le spalle come il suo movimento sul perno, quello “ora ci sono, ora non ci sono più!”. Ci metteva un attimo, gli arbitri nemmeno capivano se erano passi. Larry ci diventava matto, dovevano sempre raddoppiare con Parish o McHale. Anche in allenamento Rambis non lo teneva, e lui era grintoso! Ma era la squadra di Magic, e questo non dovevi mai scordarlo. Non che ci fosse scritto da qualche parte, il proprietario era Buss, il manager West, ma il capo della combriccola era Magic, e da lui passava tutto. Si ricordava di aver fatto violenza a se stesso per accettarlo, ma non poteva fare diversamente perché per lui quello che contava era vincere. La sostanza. Segnare, vincere, difendere, perfino. Mettere una dopo l’altra tutte le partite necessarie per essere un grande. Per avere i numeri giusti…

 

 

Certo, i numeri. Uno che fa 21 e passa di media nei playoff in carriera, con tre titoli, quante finali? 6, 7? Non se le ricorda mai tutte. Ricorda quella dell’88, la tripla doppia in gara 7 contro i Pistons: 36+16+10. Li davano per finiti, i Lakers invece no, ancora lì. Kareem ne aveva appena fatti 41, di anni, Magic era alla settima finale in nove anni. Settima, in nove anni? Pazzesco, lui era stanco alla quinta. Quando era lì, nella gara importante, beh, lui proprio non ce la faceva, doveva esplodere, lottare. È una cosa strana a pensarci. Alcuni si perdono, lui no. Lui in quei momenti sentiva che doveva appiattirsi, come un lupo, e prepararsi al pranzo della preda. E quelle con i Celtics? Quando si odiavano proprio? 1984, ’85, ’87. Diciannove partite furiose, cattive, tutta l’america che aspettava il loro showdown e Stern che pregava che arrivassero in finale per avere un contratto televisivo migliore l’anno dopo. L’84! Dopo quelle finali pensava di non averne più. Dicono che non si difendeva negli anni ’80? Che i Pistons sono stati i primi a difendere? Si vedano quelle finali! Rambis tirato giù da McHale, il tiro di DJ in gara 4, Magic che smazza 95 assist in 7 partite! Ricordava bene la faccia di Larry prima di un tiro da tre, il suo occhio sul canestro, la sua certezza che sarebbe andato dentro. Con Magic e Larry non potevi farci niente, tutto il resto era contorno. Ma essere lì, in quel momento, era come essere sulla vetta del mondo, nulla di simile.

 

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Ricordava bene la vittoria dell’85. Una maledizione che si sgretola. Le lacrime di West. Non si ricordava nemmeno quante finali avessero fatto Lakers e Celtics nei ’60. Tutta l’america aspettava, eppure i Celtics pensavano ancora di farcela, ma prima di gara-1 James sapeva che avrebbero vinto loro. Gara 6 al garden, la vittoria finale. Sorrise. Quante cose. Poi, l’86. Una serie sbagliata contro i Rockets. Quanto deve aver maledetto quel tiro di Sampson, Stern. Le torri gemelle? Il marketing cambiato all’ultimo per dare un senso alla finale, che non fu nemmeno tanto brutta… ma un anno finito nel buco nero, cancellato da tutto il resto. Il Doctor se lo ricordava poco in finale, e gli dispiaceva. Aveva insegnato a lui e a tutta la sua generazione come attaccare il canestro e come schiacciare, cosa che prima di lui si faceva con timidezza. Invece no, la sua generazione aveva assorbito quell’insegnamento e si erano scatenati tutti, in specie gli artisti: Wilkins, Nance, Micheal… Lui no, Worthy non amava la schiacciata, quella artistica, lui era “big time James”, andava per vincere, i sofismi non facevano per lui. Poi il repeat. Riley lo aveva detto durante la parata dell’87: ci ripeteremo. Due anni passati con il fiato corto, sempre al massimo. 6 partite contro i Celtics poi 7 contro i Pistons. Due anni che passano come uno. James stringe più forte il volante. Gara 7 dell’88. La sua unica tripla doppia in carriera. Non si era mai visto uno che non ha mai fatto una tripla doppia che la fa’ in gara 7! Di una finale! Alla fine di quella partita era ancora carico. Si sentiva come se avesse potuto giocarne un’altra, era troppo felice, troppo forte, si sentiva imbattibile. Un altro semaforo, frena, mette in folle. Sospira. Lui ha vinto fino all’88, poi è arrivato Michael. Strano, sono quasi coetanei, due anni o giù di lì, ma Micheal sembra un marziano. A pensarci, questa cosa Micheal ce l’ha sempre avuta, ha sempre fatto il gioco come voleva lui, una corazzata, dentro e fuori. Ha mangiato merda per sette anni, poi ha vinto. Ha costruito la sua vittoria, pezzo per pezzo. Ha fatto mettere mattone su mattone forza alla squadra, imposto i giocatori, scelto il suo gioco, e solo Phil ci può ragionare con lui. Un altro tempo. Ecco, un altro tempo. Ci pensa bene, James. Quante finali? 6, 7? 7, forse. 3 vittorie. Tutte stagioni oltre cento partite. Gli fanno male i legamenti. Quella stupida frattura al suo anno da freshmen a NC. Poi gli altri infortuni, non troppi, non pesanti, ma, come sempre, ogni mattina in cui devi giocare, il corpo si chiede se ce la fa’, e il condizionamento dopo, i massaggi, che praticamente lo tengono insieme…

 

 

L’89, il ’90 e il ’91, anni strani. Magic c’era sempre, certo. Kareem smise nell’89. 42 anni. 20 di NBA. Da Wilt the stilt a Hakeem the Dream. E in mezzo lui, Kareem. Non si potrà mai spiegare cos’è stato Kareem per l’NBA. 20 anni ai massimi livelli. Un fare ieratico, un corpo lunghissimo, quel gancio che tutti imitavano ma nessuno riuscì mai a fare come lui. Ma la magia era passata. I Pistons di interregno e poi MichaEl. Non si era arrabbiato per la finale persa del ’91. Era come un omaggio al passato, a quello che erano stato. Lo showtime era finito, i Bulls erano il nuovo, una squadra strana, asimmetrica, con un pivot e un play mediocri ma guardia, ala piccola e ala grande fortissimi. Difesa, l’attacco a triangolo, una noia! Ma era il nuovo. Loro erano il passato. Si era chiesto spesso come si potesse essere passati a nemmeno trent’anni. Ma gli anni ’80 erano finiti. Il fitness di Jane Fonda. Olivia Newton John. Le spiagge infinite. Il fatto è che James era arrivato su un treno in corsa e velocemente, senza accorgersene, era passato sul vagone di testa. Era diventato un conduttore. Sempre a spingere al massimo, a correre veloce come un elettrone sul filo del telegrafo. Poi si erano scontrati con il muro. Magic e l’aids. La squadra che si sbriciola. Era l’irrompere di un’età adulta a cui non erano abituati. La facilità all’improvviso si complicava, gli avversari diventavano più grossi e forti. Non si poteva trovare un altro che passasse come Magic. Certo, qualche anno di attesa e ridiventeranno forti, ma non sarà più stata la stessa squadra. 1991-92 e 92-93, 93-94, anni che passano tra stagioni regolari, uscite ai play off, e James che gioca sempre di meno. Non che sia meno forte, o meno veloce, non troppo, almeno. È che la gioia non c’è più e non puoi più ricrearla. Puoi essere un professionista molto ben pagato, ma se non trovi un po’ di passione nel tuo lavoro, non puoi reggere nessuna routine. Tutto diventa noioso. Giochi di meno, non ti piacciono quei compagni, non ti trovi bene, eri abituato a un livello completamente diverso. La settimana scorsa ha visto Kurt Rambis a una partita, indossava un vestito, era in borghese. Si sono guardati come due reduci e Kurt aveva quello sguardo come dire: “ma sei ancora qui?”. Nulla di volontario, certo, era una sensazione sepolta nel profondo, di cui forse nemmeno Kurt era consapevole. James è fermo in macchina.

Ha accostato senza neanche pensarci. Qualcuno lo indica. Ha il volante stretto in mano.Gli occhi guardano avanti, ma non vede più la strada fino al Forum.

Scende dall’auto, entra in un locale alla ricerca di un telefono pubblico. Il suono della monetina, il numero di casa. Pronto? – Sua moglie all’altro capo Pronto, sono James Oh, ciao caro, che succede? Volevo dirti una cosa, una cosa che ho pensato adesso, e volevo dirla a te prima che ad altri. Cosa, caro? Dimmi – la voce leggermente allarmata all’altro capo. Smetto. Non giocherò più. oggi lo dico a Mitch, poi ne parlo col coach. O il contrario non so. Sei sicuro? Davvero lo vuoi? Sì. E ne sei felice? Sì. – James sospira. Un peso gli si è tolto dallo stomaco. Bene. Sono contenta. Cosa vuoi per cena? James ride. Angela non è mai stata una donna di casa, avrà pensato che era la cosa che una moglie dice in quel momento. Niente, ti chiamo dalla palestra, dopo Va bene. Ciao allora Ciao Ah, James? Si? Ne sono felice. Davvero. Grazie.

 

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La comunicazione cade da sola. In quel momento James riflette, ci sono mille cose che gli piacerebbe fare, un sacco di giocatori da incontrare, da dimostrare la sua forza. Per un attimo si chiede se ritrarsi da quella decisione, se tornare indietro. Ma no, pensa, è il tempo di farlo. Rientra in macchina, riavvia. I Lakers devono ripartire. Lui sarebbe una zavorra o il grande vecchio e non gli va’. Non ha la tigna di Micheal, la sua rabbia. Si sente come una talpa che smette di stare all’aria aperta. Dal sedile di fianco i suoi occhialoni lo guardano. Il basket è stato tutto nella sua vita, non è il caso di offenderlo con una triste parabola discendente. Arriva al forum per la prima volta da tanto tempo senza quella sensazione allo stomaco, come di un’emozione che sta per accendere la scintilla del suo gioco. Le ginocchia ora gli fanno davvero male. Le caviglie pure. Il sole sta tramontando su LA. La solita vista di palazzoni e strade infinte, un dedalo che si distende fino al mare. Finisce come ha iniziato, senza farsi sentire, già proiettato al futuro. Non gli piacciono i monumenti, né le lamentazioni sui vecchi che smettono di giocare. Nessuno è eterno, la vita è un continuo rivolgimento, di cui non avere paura. La palla a spicchi un’arancia da tagliare, il succo un liquido di anni di battaglie ormai bevuto e strabevuto. Ve bene così. Tanti Auguri, James.