“I Will play in the NBA”
Tanti, forse troppi, dicono e pensano questa frase, soprattutto negli USA.
Il protagonista del nostro “Vite da NBA” di oggi però non solo è riuscito a far diventare realtà quella frase, ma lo ha fatto entrando dalla migliore delle porte principali, quella della prima scelta di un draft (il 2011 per la precisione) e oggi è uno dei migliori nel suo ruolo nella lega e, merito anche una più che discreta compagnia di giochi, avrà la possibilità di arrivare al suo primo anello nei prossimi Playoff. Stiamo parlando di Kyrie Andrew Irving.
Figlio d’arte, nato a Melbourne per via degli impegni cestistici del padre Drederick il 23 Marzo del 1992.
La parola “enfant prodige” funziona bene su di lui ( e come volete definire uno che a poco più di un anno viene ripreso a palleggiare tenendo fisso lo sguardo in camera?) ma il solo talento spesso non basta, così papà Drederick ( che nel frattempo è passato da essere prima giocatore, poi allenatore e dal 1996 causa decesso della madre di Kyrie Broker di Wall Street) ogni sera sfida il piccoletto in uno contro uno insegnandogli quelli che sono i fondamentali del gioco: la difesa, il palleggio con la mano debole e una certa capacità di capire il ritmo a cui vanno gli avversari per poterli poi sorprendere ( e infatti oggi Kyrie tutto sommato qualche crossover e un paio di trucchetti, diciamo così, per superare l’uomo li conosce).
Arriviamo al 2001. Kyrie cresce bene e gioca nei campetti sfidando i ragazzi più grandi. Le prende di santa ragione, ma tutto ciò non lo fa demordere, anzi, dentro lui cresce quella sicurezza che oggi vediamo in tanti giocatori provenienti dai playground statunitensi, quella spavalderia che ti porta a voler sempre tentare la giocata rischiosa (Kyrie crescendo ha imparato, e sta imparando, a usare anche la testa e a saper fare la cosa giusta per la squadra) e a non arrenderti per le botte, ma usarle invece come incentivo per diventare più forte.
il soggetto principale però in questo periodo è papà Drederick. È lui che solleva il morale al figlio dopo ogni insulto e ogni botta ricevuta: “Si va sempre a testa alta”.
Drederick però in quest’anno è anche testimone in prima persona e in primissimo piano di una delle più gravi tragedie di sempre, quella dell’11 Settembre.
La mattina dell’attentato papà Irving sta andando al lavoro e passa proprio dal World Trade Center e vive su di se l’orrore di quel gesto terroristico: un rumore assordante di un’esplosione, urla, una coltre di fumo nero dal quale si intravede il fuoco e i due palazzi che crollano, e poi la pioggia di cenere e vetri, una poltiglia che sembra quasi nevischio.
Drederick chiama casa ma nessuno risponde, i bambini sono a scuola. Si reca a casa e da quel giorno l’obiettivo principale non è solo dare un pasto e un tetto ai figli, ma passare più tempo possibile con Kyrie e renderlo grande, affinare la tecnica e far di lui un grande giocatore. Drederick scrive su un foglio tutto quello che non va bene nel gioco di Kyrie e lo appende al frigo.
Kyrie però prende spunto e fa una cosa simile su un’anta del suo armadio: “I Will play in the NBA”, la nostra frase iniziale.
Il ragazzo inizia a migliorare e a farsi un nome, partecipa a tornei estivi assieme ad alcuni che oggigiorno sono suoi colleghi in NBA (gente come Drummond e Kidd-Gilchrist).
Quel trottolino è un fulmine, mette tutti a sedere, sembra il clone nato illegalmente da Allen Iverson. I College gli puntano gli occhi addosso e parte la corsa per aggiudicarselo.
In lizza ci sono Kentucky e Duke e alla fine la spuntano i Blue Devils.
È la stagione 2010-2011, Kyrie giocherà solo 11 partite di questa totalizzando 192 punti, 47 assist, 37 rimbalzi e 16 palle rubate e un incredibile 46 % da tre punti.
Un infortunio ai legamento termina la sua prima e unica stagione collegiale, unica si perché un predestinato di questo genere merita palchi più importanti e perché gli addetti ai lavori della NBA hanno gli occhi puntati su di lui e nonostante l’infortunio in molti scommettono sul fatto che lui sarà la prima scelta NBA.
La scommessa è vinta, e nel 2011 una Cleveland orfana di LBJ dopo “The Decision” decide di eleggere Irving come nuovo trascinatore della squadra.
Kyrie fa il suo esordio a Dicembre, quando recupera dall’infortunio, ma ciò non gli nega di vincere lo stesso il Rookie of the Year, chiudendo il suo primo anno in NBA con 18, 5 punti di media uniti a 5,4 assist e 3,7 rimbalzi.
Dall’Aprile del 2012 nasce poi un’icona dalla sua mente geniale e anche diabolica. Grazie ad una collaborazione con Pepsi e ore e ore di make up ecco che ha vita “Uncle Drew” e nei playground è ancora Kyrie Show.
Da qui in poi è storia recente: Kyrie migliora di anno in anno e arriva a vincere nel 2013 la gara dei tiri da 3 dell’All Star Saturday e l’anno dopo l’MVP dell’All Star Game.
I playoff però non arrivano, causa una rifondazione errata da parte dei Cavs.
Per centrarli è servito il ritorno quest’anno di Lebron James (anch’esso incantato da quel trottolino e voglioso di giocarci assieme nella sua Cleveland, forse curioso di sapere come sia avere come compagno un vero playmaker, uno lontano anni luce dagli Snow, Gibson e Arroyo con cui the King si è trovato assieme in questi anni) e l’arrivo di Kevin Love che già aveva conosciuto Kyrie grazie ad Uncle Drew (i due erano compagni di spot nel secondo episodio).
Per Irving ora tutto sembra possibile, il career high di 57 punti quest’anno contro gli Spurs sono forse solo un assaggio di un giocatore che continua a migliorare e che sembra aver trovato i giusti compagni di squadra per poter andare lontano. Per Kyrie e forse anche per Cleveland, insomma il meglio deve ancora venire.