« Il fine della nassa è il pesce: preso il pesce metti da parte la
nassa. IL fine del calappio è la lepre: presa la lepre metti da parte
il calappio. Il fine delle parole è l’idea: afferrata l’idea metti da
parte le parole ».
-Chuang-tzu, Testi taoisti.
Mentre smetto di ringraziare il saggio (ci vorrà un bel po’) per queste parole, faccio caso che esistono delle idee un po’ difficili da sintetizzare in parole, parole che semplicemnete non sono abbastanza, in un modo o nell’altro perdi qualcosa per strada, qualche concetto che sarebbe utile non trascurare.
É onore di pochi trascendere le parole e arrivare ancora più alto, essere letteralmente qualcosa di indescrivibile per ciò che sono, per ciò che fanno… per esempio, pensando all’idea “Tim Duncan” che cosa potremmo dire? Di tutto, e neanche questo tutto basta.
Una di quelle persone che si smaterializza nella mente di chi lo ha visto giocare in infiniti ricordi e tutti sorprendenti allo stesso modo pur essendo infinitamente diversi, una specie di leggenda diffusa con la differenza che basta accendere la Tv (o il computer, se volete) e lo trovate dovunque.
Questa è la parte più sorprendente, Tim Duncan esiste in carne ed ossa eppure, dategli un soprannome, un aggettivo, qualsiasi cosa e vi accorgerete che in fondo non starete parlando di lui.
Quindi, come ve la spiego l’idea “Tim Duncan”?
Possiamo raccontarlo, mettere assieme quei ricordi, raccontando di un giocatore che apre bocca tre volte al mese perchè “well done il better than well said”,che a trentanove anni contro un Blake Griffin che ha più di un decennio di meno fa 28+11, decide praticamente un overtime che potrebbe benissimo diventare un punto di svolta della stagione e va a chiedere scusa perchè dice di avere giocato un quarto quarto orribile, un giocatore da 5000 punti ai playoff e 100 doppie doppie, che dentro l’acqua andava come uno squalo e si ritrova con una piscina a cielo aperto dopo un’uragano, che ha fatto della sua vita un lungo sequel di sliding doors arrivando a vincere tutto e nel frattempo anche nei cassetti della memoria di noi che abbiamo la fortuna di vederlo, che poteva benissimo essere draftato 2 anni prima e invece si è laureato a Wake Forest perchè l’aveva promesso alla madre, che comincia a giocare a 14 anni con un canestro dietro casa, acerbo come pochi ma che lavora come un toro, che arrivato alla High School (precisamente la George Dunstan, sempre Isole Vergini) ribalta il record della squadra da 0-12 a 12-0, che un bel giorno decide che Mourning non deve toccare palla e Mourning non la tocca e particolare da non trascurare, non era una partita di Nba ma un incontro di promozione della Lega nei Caraibi e Duncan doveva finire le High School…
Parlando di queste sliding doors che lo rendono eccezionale, difficlmente se l’uragano Hugo non fosse passato dalle sue parti lo avremmo conosciuto come cestista, se il marito della sorella non fosse un playmaker da College, se non avesse preso la laurea a Wake Forest non sarebbe capitato agli Spurs di Popovich del quale è l’incarnazione perfetta.
Impossibile non parlare della sua work ethic, per un giocatore che inizia a 14 anni un qualsiasi sport è difficile stare dietro anche a gente più piccola che però lo pratica da qualche anno in più soprattutto con un fisico mastodontico come il suo.
Invece, dopo 3 anni Duncan marca senza tanti problemi Mourning e spiega basket a mezza America.
Uno di quei talenti che avrebbe potuto fare di tutto nella vita e ha deciso di diventare un giocatore di basket, sempre in silenzio ma mai inosservato, decisivo a 39 anni come a 22 nonostante i tanti infortuni che lo hanno minato nella mobilità fisica, fascite plantare su tutte, giocatore da playoff dove diventa praticamente inarrestabile, macchina da punti, rimbalzi, difesa, assist, tutto con la geniale semplicità di chi ha un obiettivo in mente e pochi orpelli estetici attorno.
Lo hanno chiamato “The Big Fundamental” proprio per questo, a Duncan non servono crossover o scene di alcun tipo per dare il suo contributo, basta appoggiare un pallone al ferro perchè alla fine sempre due punti sono.
Un giocatore del genere non poteva che ottenere un numero imprecisato di riconoscimenti, a cominciare dai 5 titoli NBA vinti con la canotta degli speroni, insieme ai fidati compagni Parker e Ginobili, quello perso con Miami dove se in quella pazzesca Gara 6 Gregg lo avesse lasciato in campo magari avremmo avuto un finale diverso, dove a Gara 7 per la prima volta abbiamo capito che anche lui dentro un campo da basket prova delle emozioni, quante volte abbiamo visto Duncan con la testa tra le mani in panchina? Mai. Destino che il 2013 aveva scritto Miami sulla coppa.
A 37 anni dopo una batosta del genere è anche comprensibile lasciar perdere, dopo una carriera fantastica come la sua e 4 anelli vinti trovare ancora le motivazioni per andare a caccia del 5 deve essere complesso per tutti.
Resettato quell’attimo di disperazione, gli Spurs con tim in testa tornano a vincere come al solito e sarà fondamentale l’aiuto e la crescita di Leonard che tra l’altro per carattere è praticamente un mini-Tim.
Dopo il 5 titolo si ritira? Ora sei 5 e vai per i 39, ti ritiri?
No, altra stagione, altro giro ai playoff e torniamo all’inizio del racconto, i 28+11, Griffin davanti e poi tra le sue braccia piuttosto che per terra.
Un signore, punto.
Forse le uniche due parole che descrivono alla perfezione Tim Duncan sono esattamente Tim e Duncan, lui è veramente unico, l’idea e la parola allo stesso tempo.
Auguri Tim, probabilmente tra non molto ti ritirerai ma sicuramente lo farai con un foglio di carta: ancora una volta l’idea e la parola.