Maya Moore, vincere per la libertà

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Win with Justice

Maya Moore ha vinto ancora una volta.
Nella sua carriera ha vinto due Olimpiadi e due mondiali, due titoli NCAA, 4 titoli WNBA, è stata miglior giocatrice sia alle Final Four collegiali 2010, sia della stagione WNBA 2014, sia delle Finals 2013, sia dell’All Star Game, poi due EuroLega e tre titoli cinesi. Senza contare tantissimi altri premi individuali, che l’hanno portata ad essere nominata da Sports Illustrated come la più vincente cestista del basket femminile mondiale. E quelle parole di Kobe Bryant che la incoronavano, a pochi giorni dalla tragica scomparsa.
Maya Moore ha vinto ancora. Stavolta però fuori dai campi da basket.
Tutto nacque nel 2007 quando, appena finito il liceo e pronta per iniziare la sua avventura a University of Connecticut, andò a conoscere personalmente Jonathan Irons. I suoi padrini gli avevano sempre parlato di questo ragazzo 16enne che era stato incriminato, e poi dichiarato colpevole, di qualcosa che non aveva fatto. Maya Moore volle allora far visita al carcere di Jefferson City, esattamente a metà della Interstate-70 che collega Kansas City a Saint Louis, le due città più importanti dello stato. Nonostante sia la quindicesima città del Missouri con sole 43 mila anime, ne è anche la capitale.
A Jefferson City, la campionessa ci è nata e cresciuta (sebbene si sia presto spostata ad Atlanta), in una città che in passato era tristemente famosa per uno dei penitenziari più duri di tutti gli Stati Uniti, il Missouri State Penitentiary, dove in meno di trent’anni vennero giustiziate con il gas 39 persone. L’ultima vittima fu nel gennaio ’89, pochi mesi prima che Maya nascesse. Lì venne rinchiuso anche James Earl Ray, l’assassino di Martin Luther King, che però riuscì a scappare e morì solamente trent’anni dopo di Epatite C, ma libero.
Tornando a Jefferson City, ora il vecchio penitenziario è diventato un museo ma ne è stato aperto nel 2004 uno nuovo – si chiama J. C. Correctional Center – di massima sicurezza. Nella città, ce n’è anche un altro, Algoa Correctional Center, che però è più un centro per reati minori.

Maya Moore, quindi, si affeziona al caso di questa persona innocente che sta scontando anni di carcere non dovuti. All’inizio riesce solamente a fargli sapere che lei c’è, più avanti lo assiste anche con degli avvocati. Intanto lei domina in campo, vince da Rookie il titolo WNBA, diventa addirittura la prima cestista donna ad entrare nel Jordan Brand.
“Se ripenso ad ogni vittoria in campo, ognuna mi fa impazzire ogni volta. Ma il modo principale con cui io misuro il successo nella vita non è solo la pallacanestro a livello professionistico. Il modo in cui io misuro il successo è chiedendomi: ‘Sto vivendo con uno scopo?’”
Con queste parole, Maya Moore nel febbraio 2019 decide di prendersi un periodo, indefinito, lontano dai campi da basket. All’inizio è solo per seguire la sua fede cristiana, fortissima fin da piccola: vorrebbe diventare un pastore. Ma prima vuole intraprendere un percorso concreto, non di sole preghiere.
Ed è qui che i contatti con Jonathan Irons diventano più insistenti, ormai Maya Moore è in prima persona in questa lotta contro l’ingiustizia. Ha bisogno di aiutare una persona innocente a riprendersi la sua libertà.

Jordan Brand

Ecco la storia di Jonathan Irons.
Nel gennaio ’97 in un sobborgo prevalentemente bianco di Saint Louis, un ladro viene sorpreso in casa dal proprietario. Ne esce una sparatoria, il ladro riesce a scappare. Dopo un delicato intervento chirurgico al cervello e quasi due mesi di ospedale, anche il padrone di casa si salva. E che c’entra Irons? Semplicemente l’allora 16enne venne visto poche ore prima aggirarsi in quel sobborgo, armato.
Il processo parte però a fine ’98, quando Irons è ormai maggiorenne, e come tale viene considerato dalla giustizia. La prova fondamentale fu quella di un detective di un’udienza preliminare che riportò alla luce un interrogatorio di Irons in cui ammise di essersi introdotto in quella casa, senza però ricordarsi altro in quanto ubriaco. Irons non era allora assistito da nessun avvocato, e di quell’interrogatorio non c’è nessuna prova, solamente la parola di questo detective.
Irons negò assolutamente di aver rilasciato quelle dichiarazioni. Ammise solo di essere stato in quel sobborgo quel giorno, e che fosse armato – ma con una pistola diversa da quella della sparatoria – in quanto doveva vendere della marijuana ad alcuni conoscenti. “Non ero un santo, lo so bene. Ho preso tante decisioni sbagliate, ma non ho mai voluto uccidere nessuno”, ha dichiarato Irons qualche mese fa al New York Times.
Il processo durò un mese e mezzo, poi il giudice sentenziò: 50 anni di carcere per furto con scasso associato ad aggressione a mano armata. Da quel dicembre ’98 per vent’anni ci sono stati vari tentativi di tirarlo fuori, ma sempre con lo stesso esito: Irons resta dentro, fino al 2048.
Maya Moore va a trovare Irons e lo batte ad una partita di dama. Giusto per arricchire il suo palmares. Ma gli fa una promessa: “Non ti darò nessuna rivincita dentro questa prigione, la prossima partita sarà solamente là fuori”. Intanto Maya continua a vincere con le Lynx, ma nell’estate del 2016 lei e le sue tre compagne più forti e rilevanti – Whalen, Brunson ed Augustus – decidono di vestire una maglietta che ricorda i 5 neri uccisi dalla polizia a Dallas. Quattro anni prima di George Floyd (proprio a Minneapolis, tra l’altro), qualche mese in anticipo rispetto alle proteste di Colin Kaepernick, la stella WNBA Maya Moore si era già schierata contro il razzismo mostruosamente presente in ogni angolo d’America.
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Dopo anni in cui Maya Moore non si è mai fermata né in estate (con la WNBA) né in inverno (con la WCBA cinese o l’Eurolega), nel 2017 lei e le sue Lynx arrancano. Lei è stanca, sembrava di vedere il Jordan del ’93 arrivato al limite dell’esasperazione. Serve una pausa dai campi, che arriva dopo la stagione WNBA successiva, anche se sa che quella pausa la sfinirà psicologicamente, ben più di quello che il basket negli ultimi anni l’aveva sfinita dal punto di vista fisico.
Ora ha quindi tutto il tempo da dedicare alla liberazione di quell’uomo innocente. Giorni interi a trovare prove, a sentire testimoni, tutto per far riaprire il caso: la fama di Maya Moore è enorme – tutti negli USA la conoscono – e questo le permette di portare il caso Irons ad un livello mediatico molto alto.
Dopo quasi due anni di lavoro incessante in prima linea, la svolta definitiva.
Il mese scorso il giudice di Jefferson City ha deciso per la scarcerazione di Irons e l’annullamento della sua condanna. Decisiva è stata la presentazione della prova delle impronte digitali presenti sulla porta di casa: non erano né di Irons, né del padrone di casa. Su quelle impronte aveva già studiato il padrino di Maya – quello che le aveva fatto conoscere questo caso – ma non si era mai riusciti, o non s’era voluto, fare l’esame del DNA. D’altronde, serviva un colpevole e il colpevole lo avevano trovato.
Dopo quella sentenza di annullamento, Maya Moore non era ancora soddisfatta: lo sarebbe stata solo quando avrebbe visto uscire Jonathan Irons dal portone del carcere. Sono passate ancora alcune settimane, ma da ieri Irons è ufficialmente un uomo libero.
Maya Moore, nel video diffuso sui social, la si vede esplodere di felicità e, piangendo, crolla a terra. Chissà se anche ieri a Jefferson City ha provato quel senso di appagamento che si ha quando si termina una stagione alzando il titolo…
Subito dopo la sentenza, Maya si è portata a casa anche il Muhammad Alì Sports Humanitarian Award agli ESPYS, la massima onoreficenza data da ESPN agli sportivi che si sono contraddistinti al di fuori dell’ambito prettamente di loro competenza, cioè lo sport.
Maya Moore ha vinto di nuovo, ancora una volta.
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